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Per l’amore si può vivere
Ultimo romanzo della trilogia dedicata alla prima guerra mondiale (il primo, Niente di nuovo sul fronte occidentale, è un capolavoro assoluto e si svolge al fronte, il secondo, La via del ritorno, è una grande opera che parla del ritorno a casa dei reduci e del loro difficile reinserimento), Tre camerati si svolge in un’epoca già lontana dagli anni del conflitto, all’incirca alla fine degli anni ‘20, un periodo turbolento e di grande crisi per la Germania, in cui cominciano a prendere sempre più piede i nazisti. L’inflazione è spaventosa, la disoccupazione cresce quasi in modo esponenziale, e poi ci sono i disordini quotidiani, alimentati soprattutto dai seguaci di un ometto dall’apparenza insignificante, un reduce pure lui, pittore fallito, che di nome fa Adolf Hitler. In questo contesto tre amici, scampati alla guerra sul fronte occidentale, riescono a campare con la gestione di un’autofficina; a prima vista sembra un trio felice, di compagni bevitori e pronti agli scherzi, ma sotto sotto si scopre che indossano una maschera di cinismo, per cercare di nascondere, nell’impossibilità di cancellarli, i segni lasciati dalla terribile esperienza in guerra. Si chiamano Otto, Goffredo e Roberto, Roby per gli amici, e quest’ultimo finisce con il diventare il protagonista principale. Solo, senza un’idea del futuro, conosce casualmente una ragazza e il suo mondo di grigiore e di cinismo si rischiara di una nuova luce. Quell’amore ricambiato infonde in Roby fiducia nella vita, gli prospetta quel futuro che nemmeno si sarebbe sognato, ma se l’amore è qualcosa per cui si può vivere, tanto più lancinante è perdere la persona amata. E’ forse dei tre il romanzo più disperato, perché non c’è di peggio che trovare un’ancora di salvezza, uno sbocco concreto alla propria esistenza, e poi vedere sfumare tutto. Per quanto bello, lo strazio che percorre non poche pagine dell’opera finisce con il provocare l’accostamento con i giorni di trincea di Niente di nuovo sul fronte occidentale, con l’anormalità di tante morti di giovani che ancora non si erano affacciati alla vita, e la normalità invece di un decesso per cause naturali. Non dico che Remarque abbia pigiato sull’acceleratore per portare a una forte commozione, ma senz’altro la sua partecipazione al romanzo mi pare qui assai più presente che in altri casi. Bello è bello, non ci piove, ma, sempre secondo me, non raggiunge l’elevata valutazione dei primi due della trilogia. Forse i tempi diversi, l’omologazione ormai definitiva dell’orrore del grande conflitto hanno inciso sulla creatività dell’autore, del resto ormai proteso a rappresentare, in un secondo ciclo di opere, l’immane tragedia del periodo nazista, con la nuova guerra mondiale e le atrocità dell’olocausto.