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La telenovela di Hugo e Berenguela
Regno di Castiglia, fine del XV secolo. Don Fernando de Covarrubias, priore dell’Universidad dei Mercanti è uno dei principali produttori di lana di Burgos. Ha due figli, coetanei. Hugo è il figlio, naturale, avuto dalla defunta prima moglie. Mentre Damiàn è il figlio di Donna Urraca, la sua nuova consorte. Dove il primo è ribelle, insoddisfatto e sicuro di una sola cosa (il suo futuro non sarà nella lana) il secondo, che ha conosciuto la povertà dopo che la madre era rimasta vedova, è remissivo, volonteroso e desideroso di assecondare al meglio l’impresa del patrigno. O, almeno, così appare. Don Fernando mette in competizione i due giovani per accertare a chi dovrà essere lasciata la direzione dell’azienda. Hugo sa già di perdere, perché non vuole vincere, ma si metterà nei guai stupidamente con una goliardata ai danni della moglie di uno dei migliori clienti del padre. Così il Don Fernando lo punirà costringendolo a seguire, come semplice lavorante, il lungo percorso che fa la lana, dalla tosatura in Castiglia sino alla consegna del prodotto ai compratori a Bruges.
Hugo, durante questa faticosissima esperienza scoprirà l’infedeltà del fattore Policarpo Ruiz il quale, invece di tutelare gli interessi di Don Fernando, trama ai suoi danni per favorire il concorrente don Sancho Ibáñez, padre di Berenguela, amica d’infanzia di Hugo, segretamente innamorata di lui.
Purtroppo Hugo sarà scoperto mentre spia Policarpo e, per salvarsi la vita, dovrà fuggire, imbarcandosi clandestino sulla baleniera del capitano Ubeko che caccia nei lontani mari presso Terranova. Qui farà la conoscenza con Azerwan, un tunisino cantastorie, schiavo dell’armatore.
Al termine della lunga campagna di caccia lo riscatterà e, assieme a lui, inizierà la gestione di una lucrosa miniera di sale nel Sahara tunisino dove, ad entrambi, capiteranno mille avventure e, ahi loro, anche strazianti tragedie. Nel frattempo, però, Hugo ha scoperto quale sia la sua vocazione: dedicarsi all’arte e, in particolare, diventare mastro vetraio per poter fabbricare le stupefacenti vetrate che fanno risplendere di luci policrome le nuove cattedrali in stile “francese” che vanno nascendo ovunque in Europa. Purtroppo la strada per giungere a quell’agognato traguardo sarà lunga e costellata di pericoli e dolori strazianti.
Leggendo “Il maestro della luce” mi si è riproposta una domanda che da parecchio tempo mi assilla: è legittimo incolpare le grandi opere della letteratura di aver dato la stura ad una sequela di romanzi, romanzini, romanzetti e romanzucoli che ambiscono a ricalcarne le orme? Concretamente, si può imputare al “Pendolo di Foucault” di Eco di aver dato legittimità agli epigoni che hanno inventato le più strampalate storie sui Templari, i Rosa-Croce e le innumeri sette esoteriche collegate? Tolkien ha colpa se dopo di lui la letteratura s’è riempita di nani, elfi e draghi di ogni sorta? Infine, va addebitata alla responsabilità de “I pilastri della Terra” di Follett, se ormai è sempre più frequente imbattersi in romanzi pseudo-storici che seguono le vicende di costruttori di cattedrali e degli eventi collaterali, a cominciare da “La Cattedrale sul mare” di Falcones? Probabilmente sarebbe ingiusto. Però la tentazione è forte.
Nella fattispecie il romanzo di Giner è proprio un cocktail tra i romanzi di Follett e di Falcones, con una spruzzata di Melville (la caccia alle balene), due gocce di Manzoni (quello de “I promessi sposi”, per intendersi) e qualche altra idea raccattata qua e là, per strada, il tutto shakerato in stile telenovela spagnola ambientata nel ventennio che precede l’impresa di Colombo.
Intendiamoci l’idea di base è piuttosto seducente: la maggior parte dei costruttori di vetrate e le loro vite ci sono ignoti, ma quelle vetrate sono tra i capolavori dell’arte gotica: basti pensare alla Sainte Chapelle a Parigi o alla Certosa di Santa Maria de Miraflores di Burgos che interessa proprio questa storia. Quindi narrare le loro storie ed indagare su quelle tecniche antiche e raffinatissime è intrigante e pure istruttivo. Condire la storia con un po’ delle avventure dei protagonisti è lecito ed accattivante.
Purtroppo, nella fattispecie l’arte vetraria, dopo una furtiva comparsa a pagina 215, torna a far parte della narrazione, in punta di piedi, solo dopo pagina quattrocentoquaranta e nelle restanti duecentosettanta pagine essa è protagonista solo in radi capitoli. Per il resto siamo coinvolti nelle intricate e convulse avventure di Hugo e Berenguela, Azerwan e l’amata Ubayda, nelle trame di Damiàn, Donna Urraca e Policarpo, nelle “perle di saggezza” del capitano Ubeko, nelle traversie della bella Renata (amica e compagna di sventure di Berenguela), in un intrico degno dei peggiori feuilleton ottocenteschi, che distrae dal principale filone narrativo della storia senza aggiungere interesse alla vicenda, ma solo “facendo massa”.
Lo stile usato è buono, ma l’affastellarsi di accadimenti tutto sommato secondari e collaterali risulta alla fine sfibrante, tediando il lettore che non anela altro se non di giungere ad una fine ampiamente prevedibile. Infatti, è evidente sino dalle prime pagine, la storia ha un unico prevedibile esito (il riferimento a Manzoni non è casuale), quindi le storie secondarie sono solo superfetazioni inutili e defatiganti.
Ho trovato assai poco credibili, poi, gli atteggiamenti descritti e certi dialoghi, soprattutto dei personaggi femminili, troppo moderni, troppo spigliati ed indipendenti, quindi decisamente anacronistici ed in contrasto con morale, consuetudini e sentire nella Spagna della fine del XV secolo.
Conclusivamente un romanzo non bruttissimo, ma neppure particolarmente memorabile.
Indicazioni utili
- sì
- no