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Così in pace come in guerra
Nel 1931, due anni dopo la pubblicazione di Niente di nuovo sul fronte occidentale, appare in libreria La via del ritorno, il secondo romanzo della trilogia sulla Grande Guerra con cui Erich Maria Remarque si propose di evidenziare l’insensatezza della guerra. Se nel primo, che resta giustamente il più famoso, il teatro sono le trincee sconvolte e insanguinate del fronte occidentale, in questo, dopo un primo piccolo capitolo dedicato agli ultimi giorni del conflitto, si parla invece del dopo, cioè di quanto avviene a ciò che resta di una compagnia (trentadue uomini su un totale originario di cinquecento) nei giorni successivi a quello dell’armistizio, al periodo di pace che li attende. Ma sarà vera pace? Sarà possibile praticare subito una netta cesura fra le ore di tormento del fronte e quelle anonime del proprio paese? Purtroppo questi giovani sono segnati indelebilmente dall’atroce esperienza che ha sconvolto la loro gioventù e avrebbero bisogno di trovare persone comprensive, riconoscenti per quanto da loro fatto, disposte ad aiutarli, e invece percorrono le strade di un paese distrutto, affamato, in preda a un’anarchia perniciosa, con la gente che nel migliore dei casi si palesa indifferente, quando invece per lo più è tesa a incolpare questi soldatini per tutte le nefaste conseguenze della sconfitta. E la loro verde età non è motivo per una possibile rinascita, perché le tragiche esperienze li hanno invecchiati, la guerra è entrata in loro come un male subdolo dal quale è assai difficile liberarsi e inevitabilmente, abituati ad anni di cameratismo di trincea, finiscono con l’essere incapaci di ritornare alla situazione ante guerra, rifugiandosi nel conforto - cercato, ma impossibile da trovare - dell’uno con l’altro. La vita così sembrerà sempre di più senza senso, brancoleranno nel buio incapaci di abituarsi a una realtà che li respinge, così che chi è sopravvissuto alla guerra non sopravviverà alla pace. Piano piano i rapporti camerateschi si sfaldano e restano gli uomini, con le loro paure e le loro tragedie personali; c’è chi con difficoltà riuscirà a emergere dalla melma, ma c’è anche chi non vedrà soluzioni, se non quella di lasciare anzi tempo una vita diventata insopportabile. Remarque, più che in Niente di nuovo sul fronte occidentale, si cimenta in una complessa e approfondita analisi psicologica, denotando un talento non comune, e porta agli occhi del lettore una tragedia non dissimile da quella della guerra vera e propria. Per certi aspetti quest’opera è addirittura migliore della precedente perché l’autore, incidendo con precisione l’animo umano, ci pone di fronte alla chiara insensatezza di ogni conflitto, in cui il perdente è sempre colui che vi partecipa direttamente, mentre nulla hanno da temere i politici superbi, i finanzieri avidi e i generali impazienti di arrivare al successo che sono sempre alla base di ogni guerra, che la cercano, che la provocano, che la pongono in atto. Insomma, ci sono uomini e uomini, uomini già sfruttati in tempo di pace e bestie, tali sempre e che nella guerra trovano la loro più ampia e agognata realizzazione.
“Capisci? Nella parola patriottismo hanno pigiato tutte le loro frasi, la loro ambizione, la loro avidità di potenza, il loro romanticismo bugiardo, la loro stupidità, il loro affarismo e ce l’anno poi presentato come un ideale radioso. E noi abbiamo creduto che fosse la fanfara trionfale di un’esistenza nuova, forte, possente.”.
Le pagine di Remarque sono malinconiche, sono quelle di un uomo che ha compreso quanto sia ineluttabile opporsi alla violenza e come la carne da cannone sia sempre tale, in guerra, ma anche in pace.
La via del ritorno è semplicemente un capolavoro.
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