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Rieducazione
Per chi ha già letto altre opere di questo autore lituano, naturalizzato francese, e per chi ne conosce un minimo la biografia, leggere questo romanzo d’esordio significa ritrovare il sapore di una lettura dai tratti ben riconoscibili e con essa la storia di un uomo, l’autore, che ormai è sigillato nel mio immaginario come una persona profondamente intristita dalla vita, da essa piegata benché abbia provato con tutte le sue forze, tramite la sua scrittura, a consegnarci la speranza per un mondo migliore.
Come ne “Gli aquiloni”, anche qui si narra di guerra e di resistenza durante la seconda guerra mondiale; e ancora una volta è centrale, come accadeva tra l’altro nel romanzo “La vita davanti a sé” il ruolo di una persona che si sta affacciando alla vita, un bambino o un ragazzo, naturalmente un senza famiglia, un deprivato che però trova nel buio del mondo adulto una comunità accogliente e educante, sempre rigorosamente fuori da ogni schema tradizionale. È la volta di Janek, dodicenne lasciato in una buca dal padre medico, nel cuore di una gelida foresta polacca, con un sacco di patate utile a farlo sopravvivere per mesi, freddi e bui, appena rischiarati dal tenue lumicino di speranza della battaglia di Stalingrado e con il monito di non fidarsi degli uomini, o di farlo solo se si dovesse trovare in estrema difficoltà, rivolgendosi ai partigiani.
Yanek matura il suo apprendistato tra i partigiani, lì cresce, conosce la vita, l’amore, la guerra, la morte e elabora la certezza del suo destino di orfano; purtroppo il suo atto di crescita ha la cifra negativa dell’eroismo di un sabotaggio, della crudezza di un omicidio, della consapevolezza di essersi macchiato del peggiore dei crimini ma anche dell’orgoglio di aver fatto pure lui la sua parte. È il passaggio dalla musica alla violenza a scandire il suo farsi uomo, la convivenza in lui di due linguaggi differenti e opposti che solo la drammaticità della guerra può far coesistere. Le barriere, quelle del bene e del male, vacillano, crollano, il linguaggio universale dell’arte pare l’unico capace di ergersi al di sopra di tutto e di mantenere vivo l’uomo, tedesco o polacco. Spesso nel romanzo, si affida all’arte, musica o letteratura, questo ruolo salvifico. Le notti in foresta sono scandite dai racconti scritti dal compagno che col modulo della fiaba mantiene intatto il naturale candore dell’animo umano o lo risveglia se si è affievolito prima che si tramuti in dura corazza. E ancora nell’oralità del narrare di quel mitico partigiano, il loro capo, che si alimenta la speranza per una pedagogia capace di rinnovare i più alti ideali dell’Europa intera verso la rieducazione di quella gioventù segnata e sacrificata.
Ancora una volta Romain Gary spiazza il mio giudizio di lettrice, apprezzo i contenuti che tratta e la spinta ideale che li nutre, così come alcune pagine isolate che hanno l’immediata capacità di toccare il cuore commuovendomi o l’arguzia di certe sue frasi che si ergono allo stato di aforismi, eppure la sua prosa non mi coinvolge totalmente lasciando sempre in me una sensazione di imperfezione e un andamento di lettura generalmente discontinuo. Non mi do per vinta, qualcuno mi ha detto che ha scritto di meglio…
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