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Quell’ordine di cui siamo meri strumenti
Biografia romanzata ed epistolarizzata del primo imperatore di Roma, Augustus di John Williams muove l’azione dalla notizia dell’assassinio di Giulio Cesare, che raggiunge il figlio adottivo Ottaviano in Grecia, ove il giovane si trova con gli amici Agrippa e Mecenate (“Faremo come dice Mecenate… salperemo per l’Italia il più in fretta possibile”).
Nei primi due libri dell’opera, le lettere di molteplici mittenti delineano giudizi (Cicerone: “Il ragazzo non vale nulla, e non dobbiamo temere alcunché”) sulla figura dell’imperatore, espressi da antagonisti (Antonio: “Comunque, almeno in parte, è idiota per davvero: perché si dà delle arie dannatamente presuntuose per essere un ragazzo, per giunta nipote di uno strozzino e con un cognome preso in prestito… Non capirò mai cosa abbia spinto il grande Cesare a fare di quel giovane l’erede del suo nome, del suo potere e della sua fortuna”), amici e letterati.
Nelle stesse epistole, vengono delineati gli eventi (“La posizione di Antonio… è troppo ambigua. Vuole vendicare il delitto, come noi? O vuole solo prendere il potere?”) che dal triumvirato di Ottaviano-Antonio-Lepido (“So che non agisce mai per passione o per capriccio. Ha il sangue freddo di un rettile, e per questo dovrei quasi ammirarlo”), attraverso le battaglie di Filippi e Azio contro la flotta di Cleopatra, vedono Augusto divenire il signore di un impero che ebbe un precedente pari forse soltanto in quello conquistato da Alessandro Magno.
Introverso (“Non hai trovato la felicità… pur avendola data agli altri”), dotato di grande senso della politica, della diplomazia e del compromesso, Ottaviano concepisce anche la vita privata al servizio di quella pubblica, al punto da congegnare i matrimoni suoi (con Scribonia e Livia) e della figlia Giulia (con Marcello, Agrippa e Tiberio) in funzione della ragion di stato (la sorella Ottavia: “Ciò che chiamiamo matrimonio, tu m’insegni, è solo una schiavitù necessaria”). Particolarmente intenso, il profilo di Giulia si staglia dall’esilio sull’isola di Pandataria (“Io, Giulia, figlia dell’imperatore, venni accusata di adulterio al cospetto del senato, nonché di aver violato le leggi sul matrimonio che mio padre aveva promulgato con un editto quindici anni. Addietro. Ad accusarmi fu mio padre stesso…”), ove Ottaviano la confina (“Non verrai processata per alto tradimento. Ho scritto una lettera che leggerò in Senato. Sarai accusata di adulterio in base alle mie leggi, e verrai esiliata da Roma e dalle sue province. È l’unico modo. L’unico modo per salvare te e Roma”) a scontare la sua pena d’amore per il cospiratore Iullo Antonio (“Venni condannata all’esilio: e in tal modo mi fu risparmiata l’accusa di alto tradimento nei confronti dello Stato, che avrei pagato con la morte”).
Il profilo di Ottaviano rimane in controluce nei primi due libri, con il suo amore per le lettere (di Tito Livio, Orazio, Tibullo, Virgilio, Ovidio) e per Roma, ma poi si afferma nel terzo libro (“L’imperatore soffrirà come si conviene a un imperatore. Ma cosa ne sarà del dolore dell’uomo?”) nella lunga lettera che l’imperatore scrive a Nicola di Damasco durante l’ultimo viaggio verso Capri (“Quando leggo quelle opere e scrivo di me stesso, mi pare di leggere e di scrivere di un uomo che portava il mio nome ma che quasi non conosco”) per delineare “la caricatura di se stesso in cui ogni uomo finisce col trasformarsi”.
Giudizio finale: epistolare, romanzato, celebrativo.
Bruno Elpis