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L'intensa vicissitudine umana del Salvatore
Diversi autori si sono cimentati nell’interpretazione letteraria della vicissitudine di Gesù, probabilmente perché, come affermava il Manzoni, il “vero poetico” ha il potere di compenetrare il “vero storico”, illuminando quelle zone d’ombra dello stato d’animo - ovvero quel “nodo di vipere” - che si contendono il bene e il male, indagando le pulsioni interiori e le dinamiche psicologiche che determinano le scelte e i comportamenti. Da scrittore esperto conoscitore dei moti dell’animo, Mauriac offre una lettura della vicenda storica di Gesù quale “personaggio-chiave della tragedia umana di cui già da tempo si era fatto cronista e interprete”, come scrive Carlo Bo nell’introduzione. Infatti, come sottolinea Maurice Zundel in una citazione de Le poème de la Sainte Liturgie apposta ad epigrafe del libro, “Il Cristianesimo risiede essenzialmente nel Cristo. E meno nella sua dottrina che nella sua Persona.” Allora, ripercorrendo i testi evangelici, l’artista francese ci fa conoscere un Gesù impregnato di questa calda umanità, torchiato in tale tremendo impasto di lacrime e sangue, immerso nell’agone di questa tragica dialettica di gioia e dolore, luce e tenebre, fino a sfidare l’estremo limite della morte, con la pienezza di vita ulteriore della Resurrezione. Così, incontriamo un Salvatore che si china a fasciare le piaghe dei lebbrosi, che rivolge le Sue tenerezze ai reietti, ai bambini, ai “piccoli” cui è destinato il Regno dei cieli. È un Messia scandaloso, che delude le aspettative degli scribi e dei farisei, dei sommi sacerdoti che ritengono di detenere il monopolio del culto e che faticano ad accettare questo sedicente Re che si attornia di ladri, gabellieri, prostitute ed altra gente di ‘malaffare’: “Così il Cristo si formava, sotto l’apparenza del suo immenso scacco, una clientela nei bassifondi. Egli accumulava un tesoro segreto con quei cuori di scarto, coi rifiuti del mondo.” (p. 127). Tutti gli incontri di Gesù con la miseria umana sono costellati dalla sublimità della Sua Misericordia che si abbassa al livello della creatura finita, della sua sconfinata debolezza raccattata pietosamente dall’Onnipotente nell’Amore: quello con la samaritana al pozzo, con l’adultera (anche le donne rientrano nella categoria degli esclusi e discriminati che invece Egli riscatta nella loro dignità), il paralitico, il pubblicano Matteo, la Maddalena cui “sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato.” (Lc 7,47). Poi vi è il rapporto costante con i suoi apostoli, improntato ad una divina tenerezza, come con i devoti amici Lazzaro, Marta e Maria, quello controverso con la folla ambivalente, pronta a incoronarlo quando viene prodigiosamente sfamata, per poi ritirarsi atterrita quando ode da Lui quelle inconcepibili stravaganze che invitano, per esempio, a cibarsi di Lui: “Se non mangiate la carne del Figlio dell’Uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita.” Tra la sapienza autorevole del Suo insegnamento e la meschinità umana si apre sempre di più quel divario che gli spianerà la strada al Calvario, mentre in questo muto deserto di solitudine si staglia l’ombra lunga della croce, innalzata principalmente dai suoi nemici accecati dall’orgoglio e dall’invidia, i quali non sopportano di essere scardinati dalle loro false sicurezze e soprattutto dai loro ruoli di potere religioso. Ecco, dunque, compiersi il destino per quel Figlio dell’Uomo che “passò beneficando e risanando tutti coloro che erano sotto il potere del diavolo” (At 10,38) e in cambio n’ebbe il supplizio atroce riservato ai peggiori malfattori. Il Cristo ha conosciuto questa desolata abiezione pur di acquistarsi le anime, una sola delle quali vale tutto il prezzo della Sua Passione. Dalla terribile agonia del Getsemani, dove la sua carne, presentendo l’orrore delle torture, sanguina e il suo spirito geme, all’ignobile tradimento di Giuda con quel bacio che è uno sfregio al Suo amore, all’avvilente rinnegamento di Pietro, all’estremo abbandono di tutti gli amici – tranne i fedelissimi -, alle feroci umiliazioni e violenze cui è sottoposto, fino ad essere ridotto a “una vivente piaga”, così si consuma la sua Passione su quel Golgota - descritta dall’autore con intenso pathos quanto con crudo realismo - fino all’ultimo grido (Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?) e all’estremo respiro con cui accoglie l’intero creato nell’abbraccio trasversale della croce: “Tutto è compiuto”.
Eppure la vittoria, contro tutte le apparenze, gli appartiene, e definitivamente, con la primavera della Resurrezione che assicura la palingenesi dell’universo, con la conquista perenne di anime -come l’agguerrito persecutore che incontrerà sulla via di Damasco che trasfigurerà nel grande apostolo delle genti S. Paolo -, con la sua insistente corte alle creature nei secoli dei secoli: “D’ora innanzi, nel destino di ciascun uomo, vi sarà questo Dio in agguato.” (p.225).