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Trudi e Leo Montag
Burgdorf è una piccola cittadina che sorge sul Reno, un luogo dove la vita è scandita dalla volontà e dal pregiudizio della comunità e dove l’avvento del nazismo è una costante sempre più vicina e pregnante. E’ in questa realtà intessuta di pregiudizi, pettegolezzi e presunti gesti di solidarietà che nasce Trudi, una bambina che sin dal principio si dimostra essere diversa dagli altri non tanto e non solo per i suoi connotati caratteriali, quanto per la sua statura: Trudi è infatti affetta da nanismo, è una Zweig.
La sua esistenza, già resa complessa dalla sua condizione, è ulteriormente segnata dalla prematura scomparsa della madre, Gertrud, colpita da problematiche psichiatriche che ne hanno determinato a più riprese il ricovero presso strutture apposite, quanto da un non semplice rapporto con i coetanei che spesso hanno riservato nei suoi confronti atteggiamenti di derisione e scherno, talvolta superando anche i limiti del consentito. Soltanto con il padre, Leo Montag, e con il cucciolo di cane che questo le prende, ella ha un bel rapporto, un rapporto fondato sulla stima e la crescita reciproca, maturazione che non mancherà neanche negli anni più difficili circa la formazione di una persona.
E così pagina dopo pagina ci rimpiccioliamo, impariamo ad osservare il mondo con gli occhi della protagonista, assorbiamo i suoi sogni e le sue paure, le sue considerazioni e le sue speranze, restiamo basiti da taluni suoi atteggiamenti e da certe sue reazioni perché ella, nel suo essere, non è la solita protagonista a cui siamo abituati, non è la classica buonista o vittima delle circostanze quanto una ragazza (e poi donna) alla ricerca del suo posto nel mondo, assaggiamo il gusto dell’essere diversi, dell’essere traditi, della perdita, della derisione, ed assistiamo, ancora, all’avvento del nazismo, percependolo prima a piccole dosi, come un qualcosa di ancora intangibile, di non perfettamente delineato e, di poi, con tutta la sua virulenta forza.
Ed è proprio la diversità il tema centrale dell’opera. Prima ancora di quella storicamente destinata al popolo ebraico, questa è identificata negli emarginati, nei pazzi, nelle persone eccentriche, negli omosessuali, nelle zitelle, negli individui in sovrappeso ed in quelli in sottopeso, in quelli che non vanno in Chiesa, in quelli che non vi vanno finendo con il rispettare ed accettare soltanto chi si piega alla consuetudine, alla convenzione sociale, alla volontà di massa.
Eppure col tempo, quella stessa popolazione che la rinnegava e condannava per il suo aspetto, finisce con il prendere la piccola Montag come confidente; essa è destinataria di segreti e di timori, di chiacchere superflue e di problemi. Una Zweig rinnegata ed esclusa, diviene narratrice e portatrice delle storie e delle vite degli altri.
Queste storie si tramutano nel suo potere più grande, le concedono un lusso che mai le era stato riservato: essere ascoltata, non passare inosservata, non essere solo la “nana” causa della morte della madre e della sfortuna del padre. Diventano il suo esorcismo, diventano lo strumento con cui colpire e ferire chi le ha fatto del male, nonché la novella da raccontare all’ebreo in fuga ospitato segretamente insieme al padre. Avranno il potere di plasmare la stessa anima della protagonista, saranno la più fedele delle compagnie.
E se l’opera colpisce perché fornita di una storia forte, intensa e con protagonisti ben strutturati e veritieri, (in particolare per quel che riguarda questa piccola donna, che al contempo è buona e bramosa di riscatto tanto da non aver remore a far male), dall’altro perde di pathos perché lenta e farraginosa nel suo scorrimento.
Nonostante, infatti, la medesima presenti molteplici caratteri di riflessione, purtroppo è fornita di un linguaggio troppo prolisso che ne complica il proseguire. Depurata di questo tratto, essa sarebbe stata un’ottima fotografia dell’epoca, della diversità e della perdita.