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CON GLI OCCHI DELL'IMPERATORE
‘Memorie di Adriano’ di Marguerite Yourcenar, pubblicato per la prima volta nel 1951, vanta una prosa carica di bellezza, ora dolce e molle, ora fredda e crepuscolare, ma sempre capace di descrivere con accuratezza quel profluvio di pensieri e soprattutto di desideri che costituisce il soggetto dell’opera, l’imperatore Adriano, che governò Roma e le sue vaste province dal 117 al 138 d.C. L’opera si configura come una lunga lettera, il cui destinatario è il futuro imperatore Marco Aurelio, in cui il padrone del mondo stilla, senza alcuna remora, la sua autobiografia. La giovinezza, le letture, l’educazione, gli incarichi presso la corte di Traiano, gli amori tanto roventi quanto frivoli, i combattimenti, il matrimonio, la successione al trono, i nemici, le riforme, i viaggi, numerosissimi, il fascino di Atene, i riti esoterici, l’efebo Antinoo, le rivolte di Giudea, la malattia, la scelta dell’erede si succedono a comporre la materia della lettera, che la scrittrice, come nei panni di una potente negromante, fa riemergere dalle profondità del tartaro, tanto è cesellata la sua ricostruzione storica. Ad essere sinceri mi aspettavo una vita ben più interessante di quella che prende corpo fra le spire dell’incantatrice Yourcenar, una vita ancor più ricolma di fasti, sregolatezze, intrighi, sangue (sarà l’effetto malefico di Games of Thrones), una vita veramente degna della sua divinizzazione. Avrei forse dovuto optare per libri su Tiberio, Nerone o Domiziano, ma non penso esistano libri sull’argomento equiparabili a questo per grandezza.
Deludente è poi il modo, a tratti sbrigativo e poco introspettivo, con cui la Yourcenar ha dato voce alla storia d’amore, certo discutibile, almeno per i nostri standard morali, ma non priva di un fascino ammaliante, fra l’imperatore e Antinoo: sembra quasi che Antinoo sia soltanto un gioiello prezioso nelle mani d’un capriccioso. Immagine che, in realtà, si frantuma nelle pagine che seguono la morte del ragazzo, suicida nelle acque del Nilo: Marguerite, forse spinta dall’idea che è nell’assenza che gli affetti si mostrano per quello che veramente sono, ci offre ora un uomo completamente spezzato, in preda alla disperazione, che il ricordo cambia in modo capovolgente. Sembra quasi che Adriano abbia lasciato un tetro fantasma a continuare la stesura delle sue memorie. E sono proprio le ultime pagine quelle che maggiormente trasudano di melanconia, emozione e di riflessioni in grado di scuoterci e turbarci: Adriano si prepara all’ultimo passo; la sua “animula vagula” è pronta per l’ultimo viaggio. “Ma tutte le teorie sull’immortalità m’ispirano diffidenza: il sistema delle retribuzioni e delle pene lascia freddo un giudice consapevole della difficoltà di giudizio. D’altra parte, mi accade altresì di trovar troppo banale la soluzione opposta, il puro nulla, il vuoto ove risuona la risata d’Epicuro” sono le parole che Marguerite mette in bocca ad Adriano. La morte, il grande limite attraverso cui gli uomini progettano le proprie caduche vite, diventa oggetto di una meticolosa anatomia. Le ultime pagine sono d’una bellezza incredibile, sculture fatte d’alfabeto, e che, nonostante la melanconia e l’arrendevolezza con cui l’imperatore s’offre alla morte, non cessano di lodare la luminosità di questo fondatore di biblioteche, di granai contro l’inverno dello spirito, che anticipa la storia (facile, direte voi, fare gli indovini con eventi già successi): “Se i barbari s’impadroniranno mai dell’impero del mondo saranno costretti ad adottare molti dei nostri metodi; e finiranno per rassomigliarci. Cabria si preoccupa di vedere un giorno il pastoforo di Mitra o il vescovo di Cristo prendere dimora a Roma e rimpiazzarvi il pontefice massimo. Se per disgrazia questo giorno venisse, il mio successore lungo i crinali vaticani avrà cessato d’essere il capo di una cerchia di affiliati o d’una banda di settari per divenire a sua volta una delle espressioni universali dell’autorità”. Non bisogna temere i cambiamenti, il caos che imperversa, la decomposizione inesorabile, la bellezza, la giustizia lasciano segni eterni che, anche se frutto d’una sola individualità, sono simboli con cui leggere le pieghe del mondo: “mi sentivo responsabile della bellezza del mondo” scrive Adriano.
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Ho letto da poco il libro e
non ti nego di aver percepito un certo distacco nella narrazione,
come credo di aver colto dalle sensazioni che tu trai nella recensione,
ma questa "assenza", questa macanza di travolgente passione nelle parole dell'imperatore, che tu ben sottolinei, credo sia l'effetto della condizione di un'anima che già si appresta al viaggio ultraterreno,
leggera, distante, quasi imperturbabile.