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Il tormento del miniaturista
In un castello di specchi dove la realtà è riflessa da più prospettive, Pamuk ci invita a partecipare, fin da principio, ad un fine gioco investigativo che diversamente dai gialli consueti affida le redini al lettore presentandogli i fatti attraverso l’alternarsi delle figure in scena come narratori in prima persona.
Ogni capitolo, fonte di indizi ben celati, assume quindi la visuale propria del personaggio narrante, tra questi trova posto la viva voce dell’assassino stesso che però (come è suo naturale interesse) dissimula abilmente il suo essere, prestando attenzione a non rivelare la sua identità.
- “Perciò credo di non poter dire tutto. In realtà mi rendo conto che, anche quando sto per conto mio, mi seguite. Non posso tranquillamente rimuginare sui dettagli della mia vita o sulle cose che mi fanno rabbia e mi farebbero scoprire. Quando facevo quei tre esempi, Alif, Ba e Gim, con una parte del mio cervello controllavo il vostro sguardo.” -
Questa pregevole, elaborata architettura, nota decisamente lieta dell’opera, imprime una chiara impronta al romanzo, caratterizzandolo fortemente.
Istanbul, com’era attorno al 1500, fa da scenario alle vicende senza troppi dettagli: per intenderci non siamo davanti al genere dove le immagini, i profumi e le atmosfere della città rivivono nella mente del lettore (superlativo esempio fra questi “Notre Dame de Paris”).
Bensì, prepotente protagonista sul palcoscenico sino all’epilogo, risulta l’elitario mondo dei miniaturisti e delle loro opere, esplorato nelle sue origini, nei suoi significati, nella sua pratica, con una minuziosità maniacale, degna della professione in oggetto.
Purtroppo per quanto encomiabile nella meticolosità dei riferimenti alle fonti autentiche, la ridondanza del tema si fa sentire lungo le 400 pagine, sfiorando a tratti l’estenuante. Non è superfluo sottolineare che dentro a questa profusa trattazione risiedano comunque parecchie chiavi necessarie allo scioglimento finale della matassa, ragion per cui chi volesse affrontare l’indagine come un buon Sherlock Holmes si armi della pazienza propizia.
Per il resto non si tratta di una scrittura difficile, i personaggi come ben si può intuire dallo stile della narrazione sono caratterizzati in maniera indiretta e di rado sul piano fisico, l’intreccio è pressoché sovrapponibile alla fabula.
Al di là della struttura compositiva, ciò che rende “Il mio nome è Rosso” un romanzo notevole, senz’altro meritevole d’esser letto, è la metafora racchiusa nel dissidio stilistico-religioso che consuma gli animi tormentati dei miniaturisti e che ne alimenta le dispute intestine, parabola dell’acceso confronto culturale tra Oriente ed Occidente, di cui geograficamente emblematica, non poteva che esser culla Istanbul.
“Disegnare in un altro modo vuol dire vedere in un altro modo?”
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Commenti
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mi fa piacere che tu l'abbia apprezzata!
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in questo caso soprattutto ad Anna Maria Balzano
che con la sua recensione mi ha incuriosito su questa lettura.
Grazie