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La vita: un’interminabile successione di piramidi.
Il Faraone Cheope, dinnanzi al suo consiglio ristretto, annuncia che, forse, non si farà costruire nessuna piramide.
Comincia così questo romanzo breve di Ismail Kadare. Autore albanese pluri-candidato al Nobel, di cui io ignoravo colposamente (o dolosamente, forse) l’esistenza, prima che un mio allievo non me ne suggerisse la lettura.
Lo sgomento suscitato dall’annuncio del faraone è enorme. La piramide, con il suo enorme tributo di sangue e denaro è necessaria per la sopravvivenza dell’Egitto. Cheope abbozza qualche tentativo di replica (le cose vanno bene, i raccolti sono abbondanti, non si sono guerre…), ma alla fine si lascia persuadere a costruire “qualcosa di sfibrante, di distruttivo per il corpo e per lo spirito, e di assolutamente inutile.”
Seguiamo il calendario dei lavori e, per poche pagine, tanti personaggi, artigiani, muratori, cavatori di pietre, geometri architetti, funzionari e profanatori di tombe. Qua e là ci viene fornita un po’ di “contabilità” in termini di morti (incidenti sul lavoro pressoché continui), arrestati (mille complotti intorno alla piramide), imprigionati, torturati, uccisi. E si diffonde un certo senso di inquietudine, perché…sì, stiamo parlando della piramide di Cheope, dell’antico Egitto, però ogni tanto il linguaggio si fa moderno.
Molto moderno. Troppo. Contemporaneo quasi.
E infine la piramide è finita. Pronta, conclusa.
Migliaia di Egizi sono morti per costruire una tomba.
Ma sono già dimenticati, perché il tempo passa. Altre piramidi, una sfinge.
La piramide di Cheope ha già qualche segno di usura. Passano i secoli. Ma le piramidi non solo restano, ma si moltiplicano. Qui e là, dove non le aspetteresti.
Compresa quella di Timur lo Zoppo, la più raccapricciante: una piramide di teschi. Ma i teschi non sono pietre squadrate che si allineano e si impilano per bene, quindi, per mantenere la sua piramide, Huleg Kara, l’ingegnoso architetto di Timur pensa di legarli tutti insieme, forandoli e facendo passare attraverso i buchi una sbarra si ferro, e questo dimostra che “il vecchio sogno di collegare tutti i cervelli per mezzo di una sola idea poteva realizzarsi concretamente soltanto attraverso quel ferro che, trapassando i teschi, li univa”.
E se funzionasse anche con le teste?
Suggestivo (proprio in senso etimologico: suggerisce. Senza dire).
Leggerò sicuramente altro.