Dettagli Recensione
La kakania di Franz Werfel
L’edizione italiana di questo racconto lungo di Franz Werfel, edita da Guanda, racchiude un piccolo mistero. Il racconto in tedesco si intitola infatti 'Das Trauerhaus', che può essere tradotto approssimativamente come La casa del dolore o La casa del lutto: perché questo titolo sia divenuto, nella traduzione di Cristina Baseggio, 'Nella casa della gioia', sovvertendo di fatto il titolo originale, non sono proprio riuscito a spiegarmelo. Né è possibile dedurlo dalla lettura del libro, visto che non è dotato di alcuna pre- o postfazione né di commenti e note. Dato quanto il racconto ci dice, credo che il titolo originale sia molto più pertinente di tale, a mio avviso arbitraria, traduzione.
A parte questo, ed a parte alcune imprecisioni nella traduzione – la più vistosa delle quali è quella di aver tradotto la battaglia di Bílá Hora come battaglia sul Monte Bianco, con il risultato di far presumere al lettore sprovveduto che si sia trattato di uno scontro alpino – bisogna veramente essere grati all’editore e alla traduttrice per avere permesso ai lettori italiani di conoscere questa opera di Werfel, poco frequentata – a giudicare dal numero di edizioni – anche nei paesi di cultura tedesca.
Eppure 'Das Trauerhaus' non credo si possa dire rappresenti un’opera marginale nell’ambito della produzione letteraria dell’autore praghese: apparso per la prima volta nel 1926, è il racconto con il quale Werfel si cimenta con uno dei 'topoi' classici dei letterati di area austriaca nati e vissuti per una parte significativa della loro esistenza prima della grande guerra: quello del 'finis Austriae'.
Werfel, che come detto non era viennese ma di Praga, che subito dopo il conflitto fu esponente di punta del primo espressionismo, tratta – come vedremo – questo tema di sbieco, da una prospettiva periferica e non priva di una buona dose di ironia, ma sta di fatto che anche lui – forse inevitabilmente alla luce del dopo che stava vivendo, non sfugge alla tentazione di rievocare con una certa dose di nostalgia il 'mondo di ieri'.
Il racconto si svolge per la maggior parte durante una sola giornata, o meglio una serata, all’interno della casa di piacere più rinomata di una città dell’Impero, che seppure mai nominata è sicuramente Praga. Non sarà però una serata qualunque, perché al suo culmine giunge la notizia dell’assassinio a Sarajevo dell’arciduca Francesco Ferdinando e della consorte. È quindi una serata speciale quella che Werfel ci racconta, esattamente quella che – simbolicamente – ha segnato la fine del mondo austroungarico.
Werfel è però pienamente cosciente che quel mondo era già finito e che le sue istituzioni, i suoi immutabili cerimoniali erano solo, nel 1914, delle vuote ed anacronistiche rappresentazioni, e ce lo dice sin dal primo, brevissimo capitolo introduttivo alla narrazione di quella serata e delle sue conseguenze, laddove annota: ”Nella nostra città ci furono fin nel cuore della guerra tre istituzioni, che conservarono intatte questo carattere solennemente officioso: la pasticceria Stutzig, la scuola di ballo che il signor Pirnik aveva stabilita in un bel palazzo barocco vicino al celebre ponte […] e questa casa…”. Dunque, prima ancora del crollo finale e formale, le uniche istituzioni che sopravvivono sono quelle che ancora oggi ci restituiscono l’immagine da cartolina dell’Impero, della Vienna felix: la pasticceria e i balli. A queste si aggiunge il bordello, luogo sicuramente meno celebrato ma ancora più centrale, in quanto specchio della società del tempo, delle sue divisioni di classe e delle sue ipocrisie, ma anche della sua capacità di essere ancora capace di solidarietà e umanità. Werfel infatti afferma, in un passaggio di grande ironia intrisa di nostalgia, che il bordello di Via dei camosci, centro della sua storia, ben avrebbe meritato, per lo stile del suo arredamento, per il livello della sua clientela, di fregiarsi dell’appellativo k.u.k.; poco oltre – a testimonianza dell’importanza simbolica di questo luogo – ci informa che delle tre istituzioni sopra citate fu l’ultima a scomparire.
Nella casa di Via dei camosci, come detto la più rinomata e lussuosa della città, ci sono due stanze di ritrovo: la sala grande e la sala azzurra. Nella prima si ritrova la gente comune: sottufficiali e soldati, commercianti ebrei e piccoli borghesi, studenti ed intellettuali. La sala azzurra, nella quale vige l’obbligo dello champagne, è frequentata ”dalle autorità più eminenti, dall’alta aristocrazia e dai pezzi grossi della finanza e dell’industria”. Per i clienti di più alto lignaggio c’è anche il separé giapponese, ancora più segreto e inaccessibile. Anche nella geografia della casa si riproduce quindi la separatezza della società austroungarica, la lontananza delle classi dominanti dalle altre: questa separatezza, che Werfel ci presenta subito, è accentuata dal fatto che durante il racconto non penetreremo mai nella sala azzurra e nel separé, non incontreremo mai uno dei loro ospiti, limitandoci a percepire a tratti i suoni indistinti che da essi ci giungono.
Nella sala grande, l’unica in cui noi lettori comuni siamo ammessi, troviamo le ragazze e i clienti della casa, la Signorina Edith, direttrice della casa ed il pianista Nejedli; più tardi fa la sua comparsa anche il Signor Maxl, proprietario della casa. I clienti sono seduti a tavoli differenti, a seconda del gruppo sociale a cui appartengono.
Nella caratterizzazione di questi personaggi Werfel rivela tutte le sue capacità di grande autore teatrale e riappare prepotente la scuola espressionista di cui era stato maestro. Nelle pochissime pagine del secondo capitolo, con tratteggi affilati, Werfel ci presenta, attraverso gli occhi di Ludmilla – la giovane prostituta protagonista di questa storia comunque corale – occhi che passano da un gruppo di persone ad un altro come il movimento di una cinepresa, una vera antologia della società praghese e asburgica dell’epoca: dal giovane tenente Kohout, che narrando della sua ignoranza della Storia all’esame di allievo ufficiale conclude: ”Bisogna essere militari, non borghesi, questo è l’essenziale!”, al provinciale e volgare baalboth, ammiratore dell’ordine tedesco, che sbraita: ”Organizzazione, signor Kraus, organizzazione!”, ai quali si aggiungeranno il mite e colto dottor Schleissner, il Presidente della società spinoziana nonché venditore di lapidi Moré, l’impiegato e poeta von Peppler. Werfel ci presenta inoltre ciascuna delle ragazze, anch’esse caratterizzandole magistralmente, ed alle quali dedica in generale uno sguardo più benevolo che ai clienti, come pure benevolo è il trattamento che riserva alla direttrice della casa, premurosa e materna verso le 'pensionanti'. Tra queste ultime emerge sicuramente la figura di Ludmilla, ragazza ingenua e animata da buoni sentimenti, innamorata di un giovane attore di belle speranze che tuttavia sa perfettamente non potrà mai amarla e che anzi la inganna e la illude. Ludmilla ci sembra l’unico personaggio totalmente positivo del racconto, ma vedremo come questa caratterizzazione sarà giocata da Werfel per dare più forza all’amaro, icastico finale.
Le due figure più forti del libro, quelle in cui la vena espressionistica di Werfel riemerge in tutta la sua potenza, sono comunque quella del vecchio pianista Nejedli e del Signor Maxl. La loro caratterizzazione fisica e morale, la lucida e crudele pietà che Werfel dimostra per questi due emarginati sono momenti di grande letteratura. La storia di Nejedli, ex 'Imperial Regio fanciullo prodigio' con un parrucchino di colore diverso dai suoi residui capelli, che ormai con le dita rattrappite non sa più che strimpellare al piano tre motivi, oltre a essere bellissima e struggente permette a Werfel di affondare il coltello sulla stupidità dei monarchi. La rapida apparizione del Signor Maxl, stanco e malato perché dorme troppo in fretta ma che sa difendere strenuamente l’onore della sua casa dalla volgarità del 'baalboth' (significativamente l’unico personaggio del racconto senza un nome proprio) è degna di un’opera di Brecht.
Proprio il Signor Maxl diviene il protagonista suo malgrado della seconda parte del racconto, perché – anche a causa dello stress accumulato nello scontro con il 'baalboth' – muore d’infarto quella stessa notte, mentre si diffonde la notizia dell’assassinio dell’erede al trono.
L’inizio della fine dell’Impero coincide così con l’inizio della fine della casa, che nei giorni successivi vede i suoi velluti, gli specchi e gli ori coperti da drappi neri per l’allestimento della camera ardente, le porte aprirsi anche di giorno per la veglia, e l’orazione funebre pronunciata, per caso, dal Presidente Moré. Con mirabile ironia, Werfel nota però che per quanti sforzi si fossero fatti bruciando incenso, non si era riusciti a togliere dall’atrio della casa ”quell’odore di acqua da bagno calda, in cui si è versato del profumo, di spuma di sapone, di vaselina, di crema per la pelle, di belletto, di sudore, di alcool e di cibi drogati” che lo caratterizzava, e che rimandava – pur nell’eccezionalità della circostanza – a ciò che la casa realmente era. Molto belli e significativi, oltre che divertenti, sono anche i passaggi dedicati alla difficoltà di allestire una cerimonia funebre per un ebreo convertitosi, ma non ufficialmente, al cristianesimo.
Il farsesco dramma giunge al suo compimento. Veniamo informati che la casa fu rapidamente chiusa dagli eredi del Signor Maxl ed ora è occupata dalla vicina cuoieria, per cui anche il suo caratteristico odore è stato sostituito da quello di pellami bulgari. Questo 'ora' è quello della prima repubblica cecoslovacca, dove da un lato vige un nuovo puritanesimo che ha vietato i bordelli e dall’altro si fanno avanti i nuovi santuari del piacere, le sale da ballo, i locali notturni, le luci della città moderna. Ritroviamo Ludmilla moglie di un potente politico: non è propriamente grassa, ma ”nella lotta col doppio mento pare che il doppio mento voglia essere vincitore.”. Quando incontra qualcuno appartenente al suo passato semplicemente non lo riconosce, perché quel passato, altrettanto semplicemente, per lei non esiste.
E’ questa la bella chiosa di questo splendido racconto, nel quale Werfel oscilla tra la nostalgia per un mondo che ha vissuto in giovinezza e la coscienza che quello era comunque un mondo chiuso, con grandi meschinità individuali e sociali, e che ha portato alla catastrofe un intero continente. Werfel però non fa sconti neppure al mondo nuovo, di cui intuisce la continuità di fondo con il vecchio e la fragilità ideale: egli scrive 'Nella casa della gioia' in momenti nei quali le drammatiche illusioni dei primi anni dopo la guerra sono ormai svanite: usa una prosa rassegnata, nella quale gli scatti ironici ed espressionisti gli servono per mostrarci tutto il suo disincanto sia per il mondo di ieri sia per quello del suo oggi. Dense nubi già si profilavano all’orizzonte di quell’oggi, ed in questo senso il racconto di Werfel, distaccandosi dal tono di una nostalgia acriticamente apologetica dell’universo di kakania, frequente in altri autori del periodo, ma limitandosi ad una nostalgia esistenziale, ci aiuta a capire dove quelle nubi si fossero originate.
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A parte la superficialità della trasformazione del titolo nell'edizione italiana, il libro mi pare si possa tenere in seria considerazione. Ho accantonato Werfel dopo la lettura di "Una scrittura femminile azzurro pallido", che ho trovato brutto, scritto (tradotto?) male... Già quel titolo lezioso non mi ha ben disposto alla lettura.