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La storia siamo noi
Raccontare la storia attraverso le vicende di chi, senza determinare direttamente i grandi eventi, ne è non di rado inconsapevolmente partecipe, è un sistema accattivante e che in genere è accolto favorevolmente dai lettori. Di esempi ce ne sono parecchi, da Via col vento di Margaret Mitchell a La marcia di Radetzky di Josepk Roth, da Il ponte sulla Drina di Ivo Andric a I promessi sposi, di Alessandro Manzoni, e, più recentemente, Cuore di pietra di Sebastiano Vassalli. La melodia di Vienna può essere fatta rientrare giustamente in questo filone e, per certi aspetti (periodo storico e luoghi) è paragonabile a La marcia di Radetzky. Si tratta della narrazione dell’esistenza di tre generazioni (gli Alt) in un arco di tempo cruciale per la storia d’Europa che, dopo la restaurazione ottocentesca e la cristallizzazione di quattro imperi, vede l’inarrestabile declino degli stessi, che verranno spazzati via dalla Grande guerra. Diciamolo francamente: il romanzo di Lothar ha un fascino del tutto particolare derivante dall’attività familiare di fabbricazione di pianoforti, che erano forse i migliori del mondo, e dall’ubicazione della trama, quella Vienna imperiale che si culla nell’illusione di essere perpetua, con i balli di corte sulle note del Bel Danubio blu, e che non si accorge, o non vuole accorgersi, che il mondo sta cambiando, che è percorso da fremiti di rivolta sociale e di aspirazioni irredentiste. L’impero asburgico è sì un colosso, ma che si va lentamente sgretolando, e se le crepe all’inizio sono piccole, da esse deriverà il collasso con il grande conflitto del 1914 – 1918. E queste tre generazioni saranno le testimoni e le partecipi di questo evento epocale, pur vivendo ognuna nel suo tempo che finisce però con il diventare un unico lungo periodo propedeutico alla fine. Nel corso della loro vita capiterà di tutto, dagli intrighi di corte a una relazione dell’erede al trono con una delle Alt, Henriette, rapporto che si concluderà tragicamente con il suicidio del primo, da ripetuti tradimenti a figli illegittimi che si amano molto di più di quelli legittimi, che francamente sono detestati, e infine le guerre, quelle del XIX secolo, la Grande Guerra e gli inizi di quella successiva. Come è possibile comprendere, c’è tanta carne al fuoco e quindi il rischio di bruciarla, ma l’abilità, l’equilibrio dell’autore tiene lontana l’opera da questo pericolo, anzi non rasenta neppure un momento il feuilleton, riuscendo a mantenere un apprezzabile distacco in un’armonica composizione che se avvince il lettore lo porta anche a meditare, a comprendere il perché di certi fatti, gli consente di arrivare a capire come fu possibile che la dinastia degli Asburgo, che per così tanto tempo aveva regnato, si sia pressoché di colpo dissolta. È un romanzo che riesce a essere al tempo stesso toccante e profondo, un affresco stupefacente di un’epoca che è stata e che mai più ritornerà e se si vuole darne una definizione in poche parole non trovo di meglio che il giudizio della stessa, unanimemente attribuitole: capolavoro.
Mi permetto solo di aggiungere che alla lettura piacevolissima di tutte le pagine si accompagnerà alla fine una struggente malinconia, nella consapevolezza che in fondo tutti siamo pedine della storia e che per tutti c’è un tempo che mai più ritornerà.
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Mi segno il titolo.
Federica
Ammetto di non avere mai sentito citare autore e titolo, forse dipenderà anche dal fatto che come ricorda Ferruccio non è un autore tradotto sul nostro mercato, eccetto questo titolo
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