Dettagli Recensione
Trastullo supremo e morte di Apollo
La libertà di astensione argomentata dal sottoscritto in altre occasioni, quella che del paradosso fa la propria fondazione - libertà di astensione come nemesi inscindibile de(a)lla libertà di espressione - si applica con grande agio e appropriatezza alle possibili considerazioni relative al nuovo romanzo di Joel Dicker. Considerazioni, dapprima, di carattere generico. In nome della consueta, accordata libertà di esprimere se stessi, inalienabile e sanguinolenta conquista dell’Occidente civilizzato, ogni uomo o donna ha l’opportunità di produrre un’opera e di tentare una sua divulgazione all’interno del contesto di fruizione sociale rappresentato dall’audience degli utenti alfabetizzati. Sempre più sembra al sottoscritto che la produzione di manufatti “di concetto” (opere d’arte visiva e, naturalmente, poetico-letteraria) si attui, in maniera sempre più diffusa, non tanto sotto la spinta di una necessità ma solo ed esclusivamente perché se ne ha una possibilità sia ideologica che concreta. Il solo fatto che si possa materialmente produrre e divulgare risulta una ragione sufficientemente valida per sentirsi spinti a farlo. Tutto il resto parrebbe passare con grande spensieratezza in secondo piano. Ogni analisi introspettiva volta a trovare le pulsioni, le spinte motrici del nostro agire viene meno in favore del fatto che un tale dispendio di tempo ed energie sembra non risultare necessario . Perché impostare una struttura motivazionale al fine di giustificare la nostra produzione quando possiamo, con molta più facilità, addurre come giustificazione il fatto stesso di avere, senza equivoci, la possibilità di produrre? Perché scomodarsi? Il mondo, signori (e non sono certo io a scoprire l’acqua calda) è dei furbi. Molta gente, quando vede il fango, sceglie il tepore del proprio salotto piuttosto che la scomodità di un paio di stivali. E ci sono molte più persone disposte a pagare chi sceglie il salotto, affinché se ne stia comodo in poltrona, piuttosto che colui che indossa le galosce, si scomoda e lascia che sia la tempesta a richiudere l’uscio con un colpo secco.
Ma la domanda non è da eludere, e va anzi resa più specifica: qual è il fattore determinante che porta lo scrittore (archetipico) a scegliere di progettare, abbozzare, scrivere, e infine di proporre e riproporre il manoscritto di un romanzo a chi si prenderà parte della responsabilità intellettuale di ciò che diverrà di pubblico dominio? Quale scena madre, quale sommovimento sinaptico, quale scarica di energia, quale impulso è responsabile della genesi primigenia del pensiero di scrivere? Vorrei giungere a comprensione. Dov’è il luogo d’origine della poiesis? Ci muove una necessità, un bisogno, una lacuna da riempire anche se questa si svuota di continuo. Tante attività sconfinano nell’hobbistica. La scrittura, le belle lettere con essa, retaggi apollinei di atavica provenienza, sono un’arte nobile. Sono un’arte espressiva, sono parte del corredo strumentale che l’uomo riceve dalla genetica per poter esprimere se stesso nell’ambito dei suoi simili. La letteratura, come tutte le modalità espressive, è nulla se non necessaria. Il divertissement è barbarico. La letteratura da badalucco è blasfema nella misura in cui frustra l’ipostasi prima, umiliando la funzione unica dell’agire considerato “artistico”. Sono centinaia le anime stracciatesi a-causa-di e per se stesse in nome di quell’ignoto perenne che è la pratica cosiddetta “artistica”, quelle che sono cadute nell’intento, che si sono coscientemente lasciate disgregare da ciò che risultava loro inaggirabilmente, inequivocabilmente, violentemente, irrimediabilmente, Necessario. Sono loro il carnale, il respiro; benché interrotto, di un grande corpo asperso di sacertà e disciplina.
La fiction, in questo tableaux così sanguinante, di primo acchitto sembrerebbe non trovare spazio. Sembra non possedere, esattamente a causa della propria natura immaginifica, lo stesso coefficiente di necessarietà che è invece grandemente evidente in contesti letterari più strettamente attinenti all’autobiografismo o alla saggistica. Ma, naturalmente, non è così. La necessità, nella mia opinione (che i puristi potrebbero considerare sconsiderata), può esteriorizzarsi in una traslazione. In un moto di matrice velatamente onirica, nel teatrino mascherato del significato che si incarna nella sua alterità, l’autobiografismo può insinuarsi potenzialmente in ogni narrazione fizionale, in ogni singolo monema. Accetto, io, la letteratura (e continuo a venerarla) esattamente in funzione di questo retromondo, solo in considerazione di ciò che risiede nell’intercapedine tra la finzione oggettuale, il significante, e il messaggio che questa veicola, il significato. Poiché è espressiva di un messaggio che si suppone sia stato appositamente, premeditatamente inserito al proprio interno per essere esportato e fruito. Dal momento in cui ritengo di percepire senza fallo la vacuità, e la gratuità di questa, all’interno dell’oggetto della mia attenzione, solo e solamente allora mi sento defraudato. Tanto quanto mi accadrebbe se mi si facesse credere nella presenza di una eccezionalità dentro una stanza e, al mio entrare, la trovassi spoglia.
Sono chiamato a parlare di questo romanzo, ma sto sistematicamente evitando di farlo. Un’aggraziata sinossi è l’ultima cosa che può venirmi fuori. L’intreccio è ininfluente e refrattario al commento, poiché ciò che dovrebbe essere commentato non sussiste. Nessun messaggio che non sia lapalissiano e passatista, nessun paragrafo che sia stato creato con l’intento genuinamente comunicativo proprio di chi ha uno strenuo bisogno di fare ciò che fa. La “letteratura” da passatempo, per chi la produce e per chi la mastica, non è letteratura. La letteratura che occupa il tempo senza abitarlo altro non è che il delitto perpetrato dal vanaglorioso in combutta col finanziere. E di questo sono stanco. Che Joel Dicker abbia letto Dickens (quanti oceani tra due lettere) è irrilevante tanto quanto è grave l’averlo travisato: il regno della maniera, del buonismo, della scontatezza, delle coccole, dei biscotti e del profumo di shampoo alla violetta è passato da un pezzo; per ogni pugnalata e ogni umiliazione che Jean Genet (uno a caso) infligge a se stesso, c’è un Joel Dicker che caramella gli orrori della guerra, consegnando il copione alla più malriuscita contraffazione di una manica di personaggi-stereotipo, piagnoni privi di ritegno divisi tra lazzi e cliché da capogiro. Gli innesti di carattere storiografico, marcatori non poco importanti nell’architettura narrativa di un romanzo che abbia la pretesa di essere etichettato come “storico”, sono il prodotto di una ricerca che può dirsi tale solo perché deduco che gli avvicendamenti, anche i più arcinoti, siano stati fisicamente “ricercati” in quanto materiale ritenuto utile. Non trovo altre accezioni che accomunino la parola “ricerca” alla inconsistente contestualizzazione storica che essa ha prodotto e che, in casi estremi (come quello in questione), avrebbe perlomeno dato uno straccio di giustificazione all’attenzione profusa dal lettore. È la storia più vecchia del mondo, alla fine di tutti i conti: quando si comunica per luoghi comuni, quando ci si esplicita con il già-detto significa che molto probabilmente non si ha nulla da dire, o, per lo meno, che mancano le necessarie capacità per farlo adeguatamente. Benvenuto sia chi detesta autunno e primavera.
La mia boccetta di veleno è scesa solo di qualche millilitro, ma la richiudo ora, ermeticamente, con una consapevolezza di sughero che, esplicitata, suona certamente come una sproporzione. Per quanto mi riguarda, indefinitamente, basta romanzi. Se lo scettro è del popolino intellettualoide che, sussiegoso e smaniante, presume di saper far bene peccando di alterigia, allora io saluto l’allegra brigata. La cesura è personale; ed è nero su bianco, certamente, non per fungere da acciarino per lo scalpore, ne per la vanità di un desiderato interessamento. Chi vuole intendere, intenda.
Ciò che è fatto per noia non sia fatto. Boicotto come posso.
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Comunque, complimenti : la tua è una Stroncatura d'Autore !