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Inconsapevolemente, ciao Kitty.
Quando ci accingiamo a leggere questo romanzo, che sia la prima o l’ultima volta, nutriamo sempre una unica ed irrazionale speranza: che questa famiglia ce la faccia, che il finale sia diverso da quello che ognuno di noi sa essere l’epilogo inevitabile di quei giorni bui della Seconda Guerra Mondiale.
Anna ha soltanto tredici anni quando inizia il periodo di auto-reclusione a cui è costretta insieme ai suoi cari e agli amici Van Daan, ella sa che è l’unico modo per sfuggire alla follia devastatrice degli uomini, per sopravvivere anche quando non ci si può accontentare di questo, anche quando l’unico desiderio è vivere. E’ una ragazza come tante, piena di vita, sogni, ambizioni, aspettative e speranza. Nel suo diario racconta passo passo i giorni del prima della persecuzione e del dopo quando altra alternativa non c’è al fuggire, al nascondersi. Quanto entusiasmo vi è nelle sue parole; è elettrizzata per lo studio Anna, per il futuro che si augura di poter vivere con quell’innocente ottimismo di chi affronta il nuovo giorno nella consapevolezza del dover dare tutto oggi perché non vi è certezza di veder nuovamente sorgere il sole da persone libere l’indomani, è emozionata e confusa dai e per i primi battiti del cuore la nostra giovane protagonista. Non ci nasconde niente Anna. Nel confidarsi con Kitty, soprannome dato al suo amico-diario, ci narra dei sensi di colpa che aleggiano tra i coabitanti per essere stati più fortunati di chi invece è stato deportato nei campi di sterminio, di un’età di scontri, quella dell’adolescenza, in cui è inevitabile il confronto con i più grandi ma anche della infinita gratitudine nutrita per quelle persone che hanno accettato il rischio di offrirgli un rifugio dalla morte certa.
Nonostante l’età adolescenziale della piccola ebrea le sue memorie sono intrise di grande maturità, lo stile si distingue e coinvolge il lettore, lo rende partecipe trasmettendo altresì ad esso la sua grande forza caratteriale. Toccanti i suoi pensieri sul perché gli uomini arrivino ad odiarsi tra loro e a farsi del male, appassionanti i dilemmi amorosi in cui viene spontaneo interagire con lei, parlarle, cercare di trasmetterle una saggezza diversa dettata da qualche anno in più di vita, un’esistenza che tra tanti proprio a lei è stata negata.
Purtroppo il 4 agosto il nascondiglio in cui la famiglia si era rifugiata verrà scoperto e i suoi abitanti non avranno altro destino da quello della deportazione, un treno di sola andata da cui non faranno mai ritorno. Il suo diario verrà scoperto soltanto negli anni successivi da quella persona sopravvissuta che lo troverà e pubblicherà per rendere indelebile ed indimenticabile un qualcosa che mai sarebbe dovuto accadere e che mai dovrà ripetersi. Ci lascia con una lettera del 1 agosto la nostra romanziera, parole ricche di personali considerazioni in cui quasi involontariamente, l’autrice tira le somme di quelli che sono stati anni di autoprigionia, di terrore, di sospetto.
Lessi per la prima volta questo componimento all’età di quattordici anni e lo ricordo ancora oggi con chiarezza come se lo avessi assaporato ieri. Lo consiglio a tutti, grandi e piccini, per non dimenticare ma anche per imparare perché i valori della vita sono diversi da quelli dettati dall’attuale società consumista, cosa che le nuove generazioni omettono omologandosi ai miti della televisione e del web, costruendosi sul modello dei personaggi del momento, valorizzando l’apparenza e sminuendo il contenuto.
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Federica
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