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Conoscere Ludwig per capire la Germania
Ludwig II di Baviera è un personaggio quasi mitologico, in particolare nel nostro paese dopo che Luchino Visconti realizzò nel 1972 un film che può senza dubbio essere considerato uno dei vertici assoluti della cinematografia italiana (e quindi mondiale).
Alla costruzione del mito di Ludwig hanno contribuito e contribuiscono diversi fattori: la sua ascesa al trono appena ventenne, la sua bellezza apollinea (perlomeno in gioventù), il controverso rapporto con Wagner e l’amore per la sua musica e per l’arte in genere, l’amore sublimato per la cugina Sissi (altra figura dell’aristocrazia europea mitizzata dal cinema e dalla letteratura), la costruzione dei famosi castelli, la tragica e misteriosa fine.
Anche se oggi è ormai un mito da turismo di massa e da paccottiglia acquistabile nei negozi di souvenir della Baviera, la sua figura, vero paradigma della contraddittorietà del potere e di come le esigenze di quest’ultimo necessitino di sacrificare chi non ne percorre i binari prestabiliti, emerge ancora prepotentemente dietro la patina disneyana che i mentori dei viaggi tutto compreso cercano di cucirgli addosso.
Questo racconto di Klaus Mann, figlio di Thomas, scritto nel 1937, ci narra dei due ultimi giorni di vita del re deposto, dal suo arrivo – dopo essere stato arrestato – al castello di Berg presso Monaco, sino al ritrovamento del corpo nelle acque del vicino lago di Starnberg ed all’arrivo dell’afflitta imperatrice Elisabeth, che chinandosi su di lui quasi lo ricopre con la sua scura, lunga chioma. Quest’ultima scena, su cui si chiude il racconto, è talmente decadente e wagneriana da sembrare quasi una struggente parodia del gusto scenografico, dei paradigmi culturali che per tutta la vita caratterizzarono la personalità del re morto.
Il racconto si schiera decisamente e sin dalle prime pagine per l’interpretazione più politica dell’arresto e della deposizione di Ludwig, in piena sintonia, in questo, con l’opera viscontiana. Del resto è ovvio che per la realizzazione del film il regista si sia affidato, tra le varie fonti, anche a questo bel racconto, a sua volta basato su fonti storiche di prima mano. Ludwig è sì un uomo sfatto, grasso e dai denti ormai ridotti a moncherini, è sì soggetto ad un’alternanza di momenti di esaltazione e di cupa depressione, ma non è pazzo, è pienamente consapevole di essere una vittima di quelli che chiama gli intrighi e della scienza asservita al potere, che lo ha condannato senza neppure visitarlo. La stessa scelta del titolo da parte dell’autore, che allude ad uno dei particolari della sua nuova residenza che Ludwig nota subito, sottolinea il taglio che Klaus Mann dà alla vicenda.
In un lungo monologo, che rappresenta il punto focale del racconto, e che momentaneamente fa passare il racconto dalla terza persona alla prima, Ludwig riflette sulla sua vicenda personale e politica, sui suoi rapporti con Wagner, sulla sua omosessualità vissuta come una colpa, sull’amore per Sissi e su tante altre cose. E’ uno squarcio, ancorché a tratti scritto in maniera troppo cronachistica per essere davvero un monologo interiore, sulla vita del re, che ci permette di conoscere e ricostruire le vicende che portarono al suo arresto. Mann, che pure come detto ci presenta Ludwig come vittima del sistema di potere statale, non fa comunque sconti alla sua complessa personalità, che non era sicuramente – a dispetto di una certa vulgata mitizzante – quella di un re democratico.
Ludwig infatti aveva come ideale politico Luigi XIV, come testimonia in modo clamoroso il palazzo di Herreninsel costruito sul Chiemsee ad imitazione di Versailles. Vagheggiava un assolutismo diretto nel quale lui, il re illuminato e sapiente, si sarebbe rapportato direttamente al popolo senza l’intermediazione di ministri e parlamento. Era chiaramente una posizione politica non solo inadeguata ai tempi, ma apertamente in contrasto con lo sviluppo della società tedesca, che dopo la vittoriosa guerra con la Francia stava rapidamente andando verso l’unificazione statale egemonizzata dalla Prussia. In un’epoca di rapida industrializzazione, di costruzione della potenza economica e militare tedesca, di necessità di adeguare la struttura dello stato alle esigenze della borghesia dominante un re sognatore, che ha una visione antica del suo potere, che si dedica al mecenatismo culturale e – tramite la costruzione dei suoi castelli – alla rievocazione dello spirito germanico medievale intriso di assolutismo francese, disdegnando gli affari correnti dello Stato, diviene oggettivamente un ostacolo rispetto alle esigenze delle classi dominanti, e in quanto tale deve essere emarginato.
In questo senso diviene secondo me secondario sapere se Ludwig si sia volontariamente annegato nelle acque del lago di Starnberg o se il suo suicidio e la morte con lui del dottor Gudden sia stata una macabra messa in scena. Klaus Mann propende per la prima ipotesi, e ci descrive con grande forza evocativa la scena di Ludwig che nella notte incombente, sotto una pioggia che incessantemente ha accompagnato la sua prigionia, si lancia nell’acqua del lago e quindi, gridando "A casa voglio andare! Nel mio regno!" trascina con sé il dottor Gudden che era entrato in acqua per convincerlo ad uscirne. Il suicidio viene visto da Mann come la resa definitiva del re ai meccanismi che lo hanno intrappolato, la presa di coscienza finale che il suo regno non potrà più essere ristabilito in Baviera, ma va ricreato in un’altra dimensione. Ludwig ha comunque l’estrema soddisfazione di trascinare con sé il rappresentante di quella medicina che si era prestata a dare una patina di necessità scientifica alla sua prigionia.
Per capire appieno quest’opera, a mio avviso, vanno comunque evidenziati altri aspetti. Il primo riguarda il periodo in cui è stata scritta: siamo come detto nel 1937, Klaus Mann è da quattro anni fuori dalla Germania ed è impegnato in attività di propaganda contro il regime nazista. Scrivere in quel periodo la storia di un re intellettuale tedesco, imprigionato e fatto uccidere dallo stesso potere politico di cui era parte non può a mio avviso essere un semplice caso: sia pure in forma mediata, emerge nella storia un riferimento a ciò che stava accadendo in Germania ai suoi tempi, ed a come la dittatura nazista fosse figlia della storia tedesca pregressa.
Nella breve nota di Giacomo Debenedetti posta al termine del racconto, il critico sposa la tesi di una forte componente autobiografica, paragonando in particolare il rapporto tra Ludwig e Wagner a quello, denso di ambiguità, tra Klaus e il padre Thomas. Trovo forzata questa tesi, o meglio ritengo che la componente autobiografica, se è presente, sia nettamente secondaria rispetto alle tematiche più direttamente storiche e di critica politica che ho sopra cercato di evidenziare, anche se è indubbio che le assonanze tra la vicenda umana di Ludwig e quella di Klaus Mann si sarebbero protratte sino alla fine per suicidio dell’autore (1949). Klaus, come è noto, era politicamente e culturalmente più affine allo zio Heinrich piuttosto che al padre, e dallo zio aveva mutuato l’attenzione all’analisi sociale: non mi pare proprio che si possa dire che, scrivendo Finestra con le sbarre nel 1937 avesse come obiettivo rimirarsi l’ombelico.
Indicazioni utili
Il Vulcano
L'Angelo azzurro
Commenti
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I libri di Bang sono nella mia libreria (Oltre "La casa bianca" anche "La casa grigia" e "L'ultimo viaggio...", ma non so quando li leggerò: nonostante mi dia molto da fare il numero di libri da leggere aumenta sempre (ed il tempo che mi resta per leggerli diminuisce...).
Di K. Mann credo sia molto bello (ma anch'esso non l'ho ancora letto) Mephisto, da cui pure è stato tratto un bel film con un grande Klaus Maria Brandauer.
Alla prossima
Vittorio
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Ho scoperto che K. Mann è uno scrittore di buon livello leggendo "L'ultimo viaggio di un poeta", con protagonista il maggiore esponente del Decadentismo/Estetismo danese H. Bang, autore del bel romanzo "La casa bianca" (per me, una vera scoperta).