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Mason & Dixon
Per continuare a scroccare l’ospitalità dei parenti ed evitarsi così i rigori dell’inverno, il non certo specchiatissimo rev. Cherrycoke (l’onomastica dei personaggi è, come al solito, superlativa) racconta alla famiglia l’avventura dell’astronomo Mason e del topografo Dixon, inglesi incaricati di disegnare la linea che divide la Pennsylvania dal Maryland e che, più tardi, separerà Unione e Confederazione. Se, però, dovessimo sottoporre Pynchon alla stessa prova affrontata dal reverendo, probabilmente qualche giretto fuori al freddo finirebbe per farlo: questo ponderoso librone di oltre settecento pagine, infatti, è sì pieno di spunti brillanti e divagazioni fantasiose, ma il risultato complessivo finisce per essere inferiore a quello di altre opere dello scrittore di Glen Cove. Ad esempio, sarà anche per colpa della circostanza che tutti quanti bevono in quantità imbarazzanti, ma sono davvero troppi i momenti in cui non si capisce bene dove ci si trovi o chi stia parlando – emblematico può essere il capitolo 23 – e, inoltre, c’è qualche spunto interessante che viene abbandonato troppo presto, come il Cane Sapiente (e parlante) d’Inghilterra che dopo poche pagine ci assicura che siamo entrati di nuovo nel mondo pynchoniano, a confronto di altri tirati un po’ per le lunghe e in merito si veda l’episodio di Sant’Elena. Si tratta, in ogni caso, di imperfezioni che non spingono a rinunciare a fare il piccolo sforzo per seguire le avventure e le elucubrazioni della coppia protagonista, nonché dei millanta personaggi che li circondano. Siccome il libro è ambientato nel Settecento, lo scrittore utilizza l’inglese del tempo (o quello che potrebbe essere l’inglese del tempo, con il sovrappiù delle maiuscole per tantissimi sostantivi) e bisogna dare merito a Massimo Bocchiola di aver tradotto il tutto in stile con notevole efficacia: la musicalità della frase è spesso un valore in sé a prescindere da quel che racconta, come nel meraviglioso incipit, e la resa riesce a essere all’altezza. Il malinconico Mason, che incontra con frequenza il fantasma della moglie deceduta, e l’effervescente Dixon incrociano le loro vite su di una nave diretta in Sudafrica dove i due si recano per studiare il transito di Venere, battibeccano sovente e senza risparmiarsi cattiverie, ma finiscono per attrarsi come tutti gli opposti: attorno a loro si muovono innumerevoli figure, ora di fantasia ora reali (gli sballi elettrici di Franklin, la ganja di Washington, Jefferson che prende a prestito una chiacchiera di Dixon per la ricerca della felicità), che vivono ogni sorta di avventura accennando o proclamando teorie che non si capisce mai se abbiano un fondamento storico o siano state inventare lì per lì (non che abbia poi qualche importanza stabilirlo, perché suona comunque bene questo discettare di geomanzia, terra cava, deismo, rapimenti alieni e molto altro). Non possono mancare, ovviamente le situazioni e i momenti – spesso racconti nel racconto - difficili da dimenticare: le donne ninfomani di casa Vroom che concupiscono tutte Mason, la parabola del cuoco Armand e l’anatra meccanica che lo segue ovunque, il giardino dei vegetali giganti e il formaggio di analoghe dimensioni che rotola spiaccicando ogni cosa sul suo cammino, il rapimento di Eliza e la sua fuga dal Canada in compagnia di uno fuso mica male come il cinese Zhang, la rivisitazione del verme di Lambton, lo svedese Stig e la sua inquietante ascia, il piccolo popolo che vive all’interno della Terra dalle parti del Polo Nord, per non parlare dei gesuiti visti come una sorta di Spectre. Dove lo scrittore ritorna all’improvviso serio è quando guarda alla storia della nascita del suo Paese, con i miti fondativi messi a confronto con la brutalità nei confronti degli schiavi e degli indiani in aggiunta alla considerazione del fatto che tracciare un confine tirando semplicemente una linea (o, forse, tracciare un confine e basta) sarà, prima o poi, foriero di disgrazie tra coloro che vivono da una parte e quelli che stanno dall’altra.