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“Dov'è dunque Dio?”
“Mai dimenticherò quelle fiamme che bruciarono per sempre la mia Fede.
Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l'eternità il desiderio di vivere.
Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e i miei sogni, che presero il volto del deserto”.
La tragedia della Shoah sembra una pagina sempre aperta: quando si pensa di saperne abbastanza ecco che un'altra testimonianza aggiunge un nuovo tassello al mosaico infinito dell'orrore.
La storia di Elie Wiesel, premio Nobel per la Pace, si colora a tratti di lirismo, come se oppresso da una sofferenza arrivata al limite dell'umanamente sopportabile lo scrittore si elevasse al di sopra della terra con un canto sublime.
Eliezer era un ragazzo profondamente credente che studiava con entusiasmo il Talmud e frequentava la sinagoga. Viveva a Sighet, piccola città della Transilvania, con i genitori commercianti e le tre sorelle.
La discesa agli inferi inizia lenta e costante, ignorata da chi preferisce negarla: prima le restrizioni agli ebrei, poi la deportazione e il lungo spaventoso viaggio stipati su carri bestiame, destinazione Auschwitz.
Questo nome suscita a primo impatto più curiosità che paura: “Nessuno l'aveva mai sentito dire”.
A togliere ogni illusione sul tipo di accoglienza che sarà loro riservata è la visione notturna di fiamme che salgono da un alto camino, e l'odore di carne bruciata.
Eliezer e il padre non vengono separati e l'amore che li lega li tiene reciprocamente in vita, o almeno questa è la loro illusione.
Ma scopriranno presto che in un lager aver vicino una persona cara significa soprattutto essere ancora più esposti alla crudeltà degli aguzzini:
“Avevano picchiato mio padre davanti ai miei occhi e io non avevo battuto ciglio. Avevo guardato e avevo taciuto”.
E' solo l'inizio, il primo cambiamento che suscita colpa e vergogna, l'istinto primordiale alla sopravvivenza che non conosce affetti di sorta.
Perché uccidere il corpo è ancora niente: è divorare l'anima il capolavoro del Male.
I liberatori non sono lontani e la speranza si riaccende: forse è valsa la pena resistere, forse si sopravviverà, forse...
Lasciano Auschwitz-Bikernau per raggiungere Buchenwald, un campo distante cinquecento chilometri. Il tragitto è un inferno senza fiamme, bianco come la neve che non smette di cadere mentre si marcia a ritmo sostenuto. Chi si ferma è perduto: assiderato, calpestato dagli altri o freddato dalle S.S.
Nei momenti di sosta il manto nevoso diventa invitante come una coltre calda: “Non ti far prendere dal sonno, Eliezer. E' pericoloso addormentarsi nella neve...”, è la voce accorata del padre.
Si prosegue su carri bestiame senza tetto, dieci giorni senza cibo né acqua, scheletri umani stremati e tuttavia pronti ad uccidersi fra loro per un pezzetto di pane.
Il grido disperato che l'ultimo giorno di viaggio si leva da tutti i vagoni tra i pochi sopravvissuti sembra concentrare in sé tutto il dolore dell'umanità e resta dolorosamente impresso nella memoria del lettore.
Come l'immagine del bambino dagli occhi di angelo triste, appeso ad una forca.
“Dov'è dunque Dio?”, mormora un detenuto.
Parole amare affiorano nella mente di Eliezer:
“Dov'è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca...”.
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Commenti
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Io ho il blocco del lettore su tutto il filone, non ce la faccio. Credo derivi dalla quantita' di filmati/documentari in lingua originale che ci ha fatto vedere la nostra profe di tedesco (tedesca) a scuola. Mi son bastati per tutta la vita, non riesco nemmeno a toccare una paginetta di quell'orrore.
Molto didattico, allora non lo capivo ma e' stata molto utile, dovrebbero farlo anche oggi ( se non lo fanno piu').
@Rollo: il fondo non si vede e dubito che esista!
@CUB: ti consiglio comunque Primo Levi se un giorno vorrai approcciare l'argomento in letteratura.
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Aggiungo anche che resto ancora più convinto di quanto ho scritto tra i commenti del libro recensito da Renzo Montagnoli.