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Un caso di resistenza nel terzo Reich
Quando si sente la parola Resistenza, il pensiero evoca immediatamente quella italiana, quella francese, quella polacca, insomma quel movimenti dei popoli assoggettati nel corso della seconda guerra mondiale al tallone tedesco e che vi si ribellarono, scrivendo pagine di autentico eroismo contro un regime sanguinario e oppressivo.
A nessuno viene in mente la resistenza tedesca, perché con caratteristiche di insurrezione di massa non ci fu certamente. Eppure non mancò chi si ribellò al nazismo, ma con forme di lotta diverse e in un contesto che vedeva gruppi, peraltro poco numerosi, operare in una popolazione che se non era ostile nei loro confronti, comunque non era solidale. I motivi di questo isolamento e dell’insuccesso a livello nazionale di una resistenza germanica sono molteplici e ricomprendono il regime di tensione e di sospetto instaurato nel Reich, per nulla dissimile dall’analogo che vigeva in Unione Sovietica, la crudeltà di chi era preposto alla repressione, libero da qualsiasi vincolo giuridico e con una magistratura totalmente asservita, ma soprattutto le caratteristiche del popolo tedesco, per il quale i Hitler rappresentava solo l’uomo che li avrebbe ripagati della sconfitta subita nella prima guerra mondiale, alimentando inoltre quella convinzione diffusa di essere una razza superiore. Forse senza il caporale austriaco il popolo tedesco non sarebbe arrivato a macchiarsi di quell’infamia che è stato l’olocausto, ma un atteggiamento paranoico collettivo, in cui superiorità e isolamento convivevano perfettamente, rappresentavano il terreno ideale per instaurare un dominio assoluto volto alla conquista del mondo, dando ai cittadini sudditi l’illusione di una loro affermazione planetaria.
La resistenza tedesca sembra così più il frutto di pochi in forza delle loro ideologie politiche, come nel caso dell’Orchestra Rossa, o di profonde convinzioni religiose (vedasi al riguardo il vescovo cattolico Clemens August von Galen o il teologo protestante Dietrich Banhoeffer), o di militari che dopo i grandi successi iniziali paventavano le disgrazie di un’imminente capitolazione, come nel caso dell’attentato a Hitler del 20 luglio 1944, o di isolati cittadini, per lo più per ragioni legate all’esito della guerra, come la distruzione della propria casa o la morte al fronte di un parente stretto.
E il romanzo di Hans Fallada parla proprio di quest’ultima tipologia, con due genitori, se non convinti nazisti, comunque indifferenti al comportamento del regime, almeno fino al 1940, quando apprendono della morte in combattimento del loro unico figlio Otto.
Tengo a precisare che non si tratta esclusivamente di fantasia, perché i coniugi in questione, che nel libro si chiamano Otto e Anna Quangel, sono esistiti veramente, beninteso con altro nome (Otto ed Elise Hampel), così come la loro vicenda, la loro stramba ribellione avvenne veramente, come pure l’esito finale, cioè la morte di entrambi. Non voglio anticipare nulla del particolare tipo di resistenza adottato, volto a informare il popolo tedesco delle malefatte dei Reich, ma preferisco soffermarmi su quanto è invece frutto della fantasia di Fallada, un autore tedesco, il cui vero nome è Rudolf Wilhelm Fiedrich Ditzen, molto noto, non solo in Germania, in tutto il secolo scorso con opere di grande successo e per lo più a sfondo sociale ( E adesso pover’uomo? é senz’altro la più nota).
Dunque si tratta un tedesco che scrive di tedeschi in forza di un’esperienza diretta, almeno come ambientazione. Ed è proprio questa il pregio maggiore del romanzo, in una Germania asfissiata dalla propaganda e dalla polizia nazista, in cui nessuno si sente al sicuro, nemmeno fra le mura della propria casa. I delatori sono dietro l’angolo e si deve stare attenti a parlare, ma anche stare zitti può essere un pericolo. Insomma, il regime è talmente oppressivo che parrebbe impossibile tentare la minima opposizione, perché non avrebbe esito e le conseguenze sarebbero la morte. Appunto, per due genitori che hanno perso l’unico figlio la vita non rappresenta più nulla e le precauzioni che prendono non è per non essere arrestati, bensì per poter diffondere maggiormente la verità su quel che è il regime nazista.
Non sappiamo se Hans Fallada sia stato un resistente, magari anche blando, sta di fatto però che con Hitler al potere non fuggì dalla Germania, ma si ritirò a vita privata e isolata nel Meclemburgo; forse fu uno dei tanti tedeschi che non volevano vedere, che sapevano dei campi di concentramento, dell’olocausto, ma che tacevano, timorosi per la propria vita, oppure anche indifferenti, perché non toccava a loro. Ed è proprio questa indifferenza che fece resistere all’inverosimile il popolo tedesco, nonostante i bombardamenti, i lutti, le distruzioni, la fame, la stessa indifferenza di chi viveva nei pressi dei lager e sapeva. Paura? Senz’altro, ma anche, in una larga parte e non in tutti, uno stato depressivo, che si acuiva mano a mano che l’esito finale della guerra si evidenziava e sorto per aver creduto in un’illusione, per essersi accorti che da esseri superiori erano diventati il pover uomo del noto romanzo. Questa abulia li portava ad accettare ogni cosa, perfino l’annientamento del proprio paese, senza sussulti, senza ormai volontà.
Il libro, peraltro assai lungo, è senz’altro bello, ma non mi sento di provare pietà per i due coniugi giustiziati, ribelli non per un risveglio della loro coscienza, ma per una perdita, così frequente in una guerra sanguinosa tanto da essere dolorosamente accettata di altri, ma non da loro.