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La casa degli incontri
 
La casa degli incontri 2008-08-19 12:35:11 Mara
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Mara Opinione inserita da Mara    19 Agosto, 2008
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La casa degli incontri

Quell' incredibile chalet sulla collina del lager siberiano è il luogo simbolico di ciò che rende radicalmente differente l' ultimo romanzo di Martin Amis, La casa degli incontri, ora tradotto e pubblicato da Einaudi, dai lugubri, veritieri, sconvolgenti resoconti dell' incubo concentrazionario stilati da Aleksandr Solgenitsin in Arcipelago Gulag e da Varlam À? alamov nei Racconti della Kolyma. La differenza è la specificità letteraria dell' opera di Amis. Non un saggio storico, ma la raffigurazione della condizione umana nel Gulag, uno degli abissi più profondi della storia umana del Novecento. L' orrore e l' abiezione decifrati attraverso una «casa degli incontri» dove si svolgono le più strazianti «visite coniugali» mai lette nella storia della letteratura, luogo di approdo di povere e cenciose mogli cui, attorno al 1956, veniva permesso di coprire in giorni e giorni di viaggio sfiancanti «distanze continentali» per raggiungere i mariti deportati. Una «casa degli incontri» che si trasformava, troppo spesso, in una spaventosa «casa degli addii». A differenza di Solgenitsin e di À? alamov, ovviamente, Amis non ha mai patito nella propria carne gli orrori del Gulag. C' è piuttosto da chiedersi perché, come mai, per effetto scaturito da quale profonda ragione culturale e psicologica, uno scrittore poco più che cinquantenne tra i più brillanti della sua generazione, un inglese moderno e di «tendenza», pieno di glamour, amato dai lettori più vicini a una sensibilità schiettamente metropolitana, autore con L'informazione di uno dei romanzi più rappresentativi di una nuova narrativa vivace e vigorosa, abbia scelto il Gulag come cornice storico-esistenziale della sua creatività letteraria. Per comprenderne la logica, bisogna collegarsi a un libro di Amis come Koba il terribile, l' antefatto saggistico più prossimo a questo romanzo, in cui il tema dell' orrore comunista veniva tematizzato come grande mito negativo dell' immaginario contemporaneo. Ma anche lì la base documentaria non si limitava ai grandi classici della storia del terrore sovietico, e si nutriva, esibendo ancora una volta la peculiare stoffa letteraria dell'autore, di testi eccentrici, a cominciare dal conturbante epistolario tra l' esule russo Vladimir Nabokov e il critico leftist americano Edmund Wilson, o le conversazioni tra il padre di Martin, Kingsley Amis, e lo storico Robert Conquest. E questo intreccio di letteratura e conoscenza storica si conferma nei singolari «ringraziamenti» collocati alla fine della Casa degli incontri dove Martin Amis si riconosce grato debitore del «magistrale Gulag di Anne Applebaum, costruito con lucidità ed eleganza» o della Danza di Natasha, storia della cultura russa di Orlando Figes. Una lezione severa per gli scrittori che si affidano ingenuamente presuntuosi alla vena narcisistica della loro ispirazione: per scrivere di certe cose bisogna studiare, divorare montagne di libri, come fece Thomas Mann che si dedicò per anni a migliaia di volumi di esegesi biblica per affrontare la sua straordinaria tetralogia di Giuseppe e i suoi fratelli. Studiando, Martin Amis non dimentica tuttavia di essere, primariamente, uno scrittore. La «casa degli incontri», allestita in un lager sovietico ancora mostruosamente attivo anche nell' anno della denuncia kruscioviana dei crimini di Stalin, potrebbe significare un piccolo spiraglio di umanità nella disumanità assoluta del Gulag. In realtà misura l' approdo di una totale degradazione di sé dei «sottouomini» reclusi nel lager. Per raggiungere quella casa i deportati partivano «irriconoscibili, scorticati, gli abiti induriti non dalla sporcizia», come sempre, «ma dall' aggressività degli impietosi detergenti». Però in quale pietosa condizione ritornavano da quei convegni, segreti e tollerati, con volti e corpi delle «mogli dei nemici del popolo», oramai dimenticati dopo anni di sofferenze indicibili? Barcollando «come larve e relitti giù per il fianco della collina». Uomini devastati dall' «anemia cronica» della deportazione e che «cercavano di essere sanguigni, ma avevano il sangue annacquato»: «quest' uomo ce l'ha scritto in faccia, ce l' ha scritto sul corpo che non ci è riuscito: la bocca sghemba, la molle fiacchezza delle membra». Un fallimento senza riscatto, emblema in cui «vedevi l'accumulo di problemi che ti aspettavano in libertà». Prigionieri a vita del loro incubo, che dopo quel breve e tremendo contatto con la vita perduta con il mondo lasciato da chissà quanto, si muravano «sotto un manto di solitudine». Del resto quella casa sulla collina non era forse troppo vicina «al doppio filo spinato che la circondava». A sua figlia concepita in Occidente anni e anni dopo, alla figlia della libertà americana che come tutti i suoi coetanei sente e percepisce il Gulag alla stregua di una macchia lontana di una storia oramai finita, il protagonista del romanzo che dentro quell' inferno ha passato un pezzo decisivo della vita racconta con meticolosa precisione la gerarchia dell' orrore nei campi della schiavitù. Il regime schiavista instaurato nel Gulag (in cui la nozione di «lavori forzati» è troppo edulcorata per rendere lo stato di totale spossessamento di sé sofferto dai deportati schiavi) aveva una sua logica e un suo ordine mostruoso meticolosamente rispettato. C'erano, ai vertici della schiavitù, lo strato delle «cagne» e dei «bruti» che, in perenne stato di guerra civile, si contendevano il predominio del campo con seghe da tronchi e piedi di porco. Più giù i «porci», nel ruolo di vigilanti. E poi gli «urka», la feccia della delinquenza comune, esentata dal lavoro. E ancora, in una posizione intermedia tra la satrapia del terrore e l' abisso dei perduti: «le serpi», i delatori; «le sanguisughe», truffatori «borghesi». Alla base della piramide i «fascisti», oppositori, «nemici del popolo», i politici; e poi «le cavallette», i minorenni «figli illegittimi della rivoluzione»; e infine, giù nella polvere e nella melma più disgustosa, «i mangiamerda», i casi disperati che si «azzuffavano con un filo di forza per spartirsi escrementi e rifiuti». Io, dice il protagonista, in questa società irreale e atroce, «ero un elemento socialmente estraneo, un politico, un fascista». Ma il «politico» deve aggiungere: «inutile dire che non ero un fascista. Ero comunista». Sarà pure «inutile», ma Martin Amis sente di dover insistere su questo dettaglio che testimonia l'assurdità del mondo rovesciato incarnatosi nel comunismo e nel Gulag. Un dettaglio che è il cuore di una vita vissuta e il nutrimento di una raffigurazione letteraria che smentisce il pregiudizio sull' irrappresentabilità estetica del totalitarismo moderno. La letteratura come chiave di lettura di un orribile mondo alla rovescia.

Battista Pierluigi (Corriere della Sera - giugno 2008)



Quando ho terminato la lettura, mi sono restate in mente le parole tatuate sul braccio dell’uomo del Gulag: vivere forse, amare mai.

Buona lettura:)

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