Le assaggiatrici
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L'assaggiatrice insipida
Smaltire almeno in parte i tanti titoli Feltrinelli accumulati in libreria sembra essere diventato uno dei miei propositi di questo 2023. Tre anni fa, incapace di resistere alla promozione da me ribattezzate "Prendi 2, spendi poco", mi sono trovata tra le mani una copia de "Le assaggiatrici", romanzo storico tra i più celebri di Postorino anche per merito dei tanti premi che ha ricevuto. Di questa storia però io sapevo ben poco e mi sono quindi affidata alla sinossi, peccato che questa prometta una lettura un po' diversa da quella effettivamente presentata dal libro.
La vicenda si svolge nella Prussia orientale, a cavallo tra il 1943 ed il 1944, e -almeno sulla carta- racconta le vite di dieci donne assunte per assaggiare i piatti destinati al Führer. A conti fatti Rosa Sauer, voce narrante del romanzo, è la sola ad ottenere un ruolo di primo piano ed una vera introspezione: nata e cresciuta a Berlino, si ritrova a vivere a Gross-Partsch -nei pressi della cosiddetta Wolfsschanze, la Tana del Lupo- presso i genitori del marito, impegnato a combattere sul fronte russo. Diventata giocoforza una delle assaggiatrici, Rosa inizia a stringere dei legami di amicizia con le altre donne, mentre sullo sfondo possiamo intravedere le battute finali della Seconda Guerra Mondiale.
Pur essendo un elemento fondamentale nella narrazione, il conflitto rimane sempre in secondo piano e ci sono ben poche conseguenze dirette nelle vite quotidiane delle assaggiatrici; in sostanza, mentre la sinossi sembra sottintendere che si trovino costrette a scegliere tra una morte per stenti e del cibo potenzialmente avvelenato, in realtà nessuna di loro sembra troppo patita, così come nessuna intraprende questo lavoro in virtù di una scelta: vengono infatti costrette dai militari. L'altra ragione per cui reputo la presentazione del romanzo falsante è che porta ad aspettarsi dei tentativi di avvelenamento, mentre nell'effettivo non ne viene descritto neanche uno; e dire che la scelta di raccontare dei personaggi fittizi anziché scrivere una vera biografia di Margot Wölk (una delle assaggiatrici di Hitler nella caserma di Krausendorf) avrebbe permesso a Postorino di prendersi qualche liberà in più.
Sul piano della ricostruzione storica si rimane invece molto fedeli, e questo ovviamente denota un buon lavoro di ricerca, grazie al quale l'autrice riesce a mescolare eventi reali alla finzione del romanzo in modo omogeneo. Penso che tra gli aspetti positivi rientrino anche lo spunto iniziale -abbastanza originale, pur con i limiti di cui ho già parlato- e la prosa decisamente particolare adottata da Postorino, nella quale si intrecciano stralci di dialoghi e pensieri della protagonista alla narrazione degli eventi.
Ci sono poi alcuni personaggi secondari con del potenziale, come Elfriede e la Baronessa von Mildernhagen, delle quali però non sappiamo più di tanto, oltre a delle riflessioni sulla solidarietà femminile. Riflessioni che vanno purtroppo a collidere con quella che è la caratterizzazione di Rosa, ed il suo ruolo all'interno del libro: come protagonista è troppo inattiva, e per questo la sua storia prosegue in base alle decisioni altrui, che lei segue passivamente. Mi rendo conto che con il personaggio di Rosa la cara Rosella voleva probabilmente rappresentare il sonnambulo popolo tedesco nel suo insieme, ma un carattere così sciapo non mi va proprio a genio, tanto meno in una protagonista.
Ho riscontrato inoltre un po' di difficoltà nel seguire i dialoghi, non sempre chiarissimi quando ci sono più di due personaggi in scena, e a farmi coinvolgere dalla trama. Questo perché presenta delle frasi che anticipano gli eventi, non solo nel contesto storico ma anche per quanto riguarda i personaggi fittizi, con il risultato di annullare di fatto la suspense. Il finale tenta un colpo di coda dal punto di vista emotivo, ma ormai era troppo tardi: avevo perso qualunque interesse nel provare empatia per la dimenticabile Rosa. Sul lato romance invece preferisco soprassedere in pieno e fingere non sia presente, anziché far volare improperi a destra e manca.
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Quanto male fa la guerra
Leggere questo libro in questo momento storico particolare è dura, la guerra è di nuovo fra noi e più vicina di quanto ci saremmo mai immaginati.
Non conoscevo la storia vera di queste donne tedesche che assaggiavano il cibo di Hitler rischiando la vita tutti i giorni. In questo caso la protagonista viene da Berlino, fuggita nelle campagne per scappare dai bombardamenti, si ritrova "prigioniera" di questa situazione da cui non ha scampo e si ritrova a stringere amicizie che avrebbe creduto improbabili e a provare attrazione per il nemico. Mi è piaciuto molto, soprattutto ho capito i tormenti interiori di questa donna in un momento in cui la paura ha preso il sopravvento.
Il finale secondo me un po' tirato via, è comunque un libro che consiglierei.
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Una storia dimenticata
L'ambientazione in una desolata landa polacca ricoperta da boschi e campi a bassissima densità abitativa, fa da sfondo alla ricostruzione di una pagina di storia di cui poco si conosce.
Quella narrata è una storia che corre in parallelo all'ascesa del Fuhrer e alla sua consuetudine ad alloggiare in bunker segreti disseminati in zone rurali e remote.
Le protagoniste sono donne “selezionate” dietro compenso per assaggiare i prelibati manicaretti destinati ad imbandire la tavola di Hitler. Egli non può rischiare l'avvelenamento, occorrono cavie da sacrificare in nome della sua salvezza.
Il confine tra costrizione e accettazione di questo ruolo folle e crudele è un filo sottile che l'autrice si propone di indagare, rendendoci un quadro realistico, tentando di mettere a nudo le anime di queste creature che sono immagine di solitudini, i cui compagni sono impegnati al fronte oppure già defunti.
Ogni succulento boccone per quanto agognato dai poveri stomaci stremati dalla fame, può essere strumento di una atroce morte, può essere un attimo di luce prima di sprofondare nel baratro.
Le immagini del refettorio sono ben rappresentate, con una carica di pathos che riempie di rabbia e dolore il cuore del lettore, fin quasi a percepire la disperazione e la tensione morso dopo morso.
Rosella Postorino sviluppa uno spunto cronachistico che ben si presta all'approfondimento ma cozzando contro la scarsità di informazioni cui attingere, utilizza la sua penna per ricamare una trama che intreccia fili brillanti ad un tessuto che vira troppo al colore rosa, perdendo di credibilità storica lungo il tragitto.
Il prodotto finale è un lavoro di narrativa lontano dai canoni rigorosi del romanzo storico, una proposta letteraria di intrattenimento dalla prosa lineare e fruibile.
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prese per la gola
Sono un po' dubbiosa su questo libro. Il problema è sempre : è possibile parlare con leggerezza di qualcosa di drammatico?. Non conoscevo le assaggiatrici di Hitler, che pur sono esistite, e dopo parecchi anni di silenzio hanno svelato anche questa crudeltà del regime nazista. Credo che la Pastorino in alcune parti sia riuscita a rendere l'dea della crudeltà di questo tipo di "lavoro". Ci sono alcuni brani del romanzo che in effetti mi hanno fatto rabbrividire e inorridire. Trovo però che la maggior parte del romanzo abbia una connotazione troppo rosa. Mi rendo conto che la vita debba andare avanti e che trattando di donne giovani, fosse necessario indagare anche nella loro vita romantica. Ma forse l'autrice ha indugiato troppo su questo aspetto, spingendo spesso in una posizione periferica il vero punto della storia. O almeno,quello che secondo me avrebbe dovuto essere rimarcato più e più volte. La paura, l'incertezza, quella lunga ora da trascorrere in attesa che l'eventuale veleno facesse effetto. Il desiderio che quel boccone fosse quello decisivo e che il pasto successivo non fosse più qualcosa da attendere con orrore. Ha salvato il romanzo, che devo dire mi aveva lasciata tiepida, l'ultima pagina. Ecco lì nelle parole finali del romanzo ho trovato quello che mi aspettavo si dicesse in tutti i capitoli precedenti: l'orrore vissuto da queste donne, il danno che è stato fatto loro, l'impossibilità di cancellare con un colpo di spugna quella che in fin dei conti è stata una vera e propria tortura. Comunque è un libro che consiglio di leggere a chi come me non sapeva dell'esistenza anche di queste vittime che per pudore, paura o altro hanno parlato molto tardi del loro ruolo di assaggiatrici. Un brava anche all'autrice per quell'ultima parte così chiarificatrice e capace di salvare tutto il libro.
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Mangia bene chi mangia ultimo
Gli stomaci vuoti reclamano cibo, dieci giovani donne scendono da un pulmino e siedono a tavola.
A differenza del popolo affamato dalla guerra hanno il privilegio di potersi saziare a volontà di una cucina appetitosa e nutriente. Mangiano i pasti di Hitler, mangiano per la gloria della Germania, mangiano perché non hanno altra scelta.
Sono le assaggiatrici, coloro che venivano alimentate col cibo del Fuhrer per scongiurare ogni tentativo di avvelenamento.
Ispiratosi alla storia vera di Margot Wolk, si prenda alla lettera la parola ISPIRATOSI. Si tratta di un incipit che perdura durante tutto il romanzo, ma ben lontano dall’essere il vero perno del racconto.
Di fatto la vicenda, screziata di rosa, si concentra sulla vita della protagonista e sulle relazioni sociali, sentimentali e passionali che vi gravitano attorno.
Buona la narrativa della Postorino, fluida e compatta su un contenuto però frivolo e prevedibile, il libro è ben strutturato e non ho dubbi che non annoierà il lettore che ami le vicende romanzate ambientate nel periodo nazista.
Fortemente anemico il mio giudizio, io detesto questo filone narrativo e me ne tengo di norma alla larga. Le vie del Signore sono Infinite, convinta dai premi ottenuti che il passo fosse più realistico e che il focus – estremamente accattivante - fosse quello delle assaggiatrici, nell’Infinito ho imboccato la via sbagliata.
Mea culpa, il libro merita, a chi piace il genere.
Una mezza delusione
Partiamo da una dovuta premessa... per i miei standard, libro di meno di 300 pagine, ambientazione storica, letto in una settimana, il libro è da leggere....ma ci sono troppi ma che ne abbassano il giudizio.
La storia mi ha ricordato più un romanzetto rosa, con una trama che ha un'improvvisa impennata che si capisce dopo poche pagine a cosa l'autrice voglia mirare.
L'ambientazione storico/geografica (Seconda Guerra Mondiale/Tana del Lupo) è ben fatta, ma l'autrice ha voluto mettere troppi elementi conosciuti, sfociando nella banalità... ci sono le assaggiatrici, c'è il disprezzo delle SS (ma poi perchè verso cittadine tedesche???), c'è l'ebrea intrufolata, il marito partito per la Russia, un viaggio nel vagone merci, finanche l'operazione Valchiria buttata li per riempire le pagine e aggiungere un paio di personaggi estranei alla trama.
Infine lo stile che non ho apprezzato, perchè su frasi semplici, l'autrice fa un uso a me strano della punteggiatura, in uno stile che a me non piace
"Forse era il mio vestito a incuriosirla, forse aveva ragione Herta, con quella fantasia a scacchi ero fuori luogo, non stavo mica andando in ufficio, non lavoravo più a Berlino, togliti quell'aria da cittadina, aveva detto mia suocera, tutti ti guarderanno storta".
Insomma, personalmente non lo rileggerei e non mi ha lasciato granchè...
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Prigioniere senza sbarre
Siamo nella Germania nazista in piena seconda guerra mondiale, dieci donne tedesche vengono assoldate per fare da assaggiatrici. In pratica in una caserma dove vengono preparati i pasti destinati al Fuhrer loro devono assaggiare le varie pietanze per scongiurare una delle paure del dittatore, quella di essere avvelenato dai nemici tramite cibo contaminato. Ci sarebbe di che essere terrorizzate ma la paura dura un paio di giorni, poi le donne fanno passare in secondo piano il rischio di avvelenamento e le paure che le tormentano sono comunque altre nella loro quotidianità. In un periodo in cui anche nella potente Germania mancano alcuni generi di prima necessità loro possono fare tre pasti al giorno tra l'altro mangiando prelibatezze , a parte dover sopportare le fobie alimentari di Hitler, il prezzo da pagare è il rischio che ogni pasto sia l'ultimo , pur non essendo ebree sono a loro volta prigioniere.
L'autrice non calca mai la mano sulla paura di essere avvelenate , come se fosse qualcosa di intrinseco ormai delle loro giornate o come se le protagoniste ad un certo punto si autoconvincessero che tanto non succederà nulla. Ci si concentra sulla voglia disperata di queste donne di continuare a vivere una vita degna, fuori dall'abulia del loro nuovo compito, nonostante i mariti al fronte accettando anche rischi di altro tipo. Alcune di loro riusciranno anche a legare dando vita ad una forma di amicizia nella quale il legame è la disperazione non la fiducia. La vicenda è narrata per voce di una delle ragazze , Rosa, la quale dopo aver ricevuto la notizia che il marito è dato per disperso, instaurerà una relazione con il nuovo comandante delle caserma, dove ci si chiede se c'è amore o solo il bisogno di due esseri umani di trovare conforto tra le braccia di qualcuno.
Questo libro mi è stato raccomandato come un'opera eccezionale, sinceramente non condivido. Forse sarà che ho una sensibilità differente, ben scritto, con uno stile anche troppo pieno di enfasi e ricercato, ma la storia in se non mi ha particolarmente coinvolto.
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Sopravvalutato
Rosa Sauer è una giovane donna originaria di Berlino trasferitasi a Gross-Partsch nell'autunno del 1943. Il marito, Gregor, era partito da anni come soldato e Rosa, dopo essere rimasta orfana dei genitori, decide di trasferirsi a casa dei suoceri.
Una mattina viene prelevata da un pulmino per diventare, insieme ad altre nove donne, assaggiatrice di Hitler. Rosa non ha scelta: tutti i giorni, volente o nolente, dovrà sedersi ad una tavola potenzialmente avvelenata e masticare il cibo del Führer. Mentre scorrono lenti i tragici mesi di quel periodo, Rosa aspetta il marito Gregor, ripensa alla sua vita passata ed instaura una specie di amicizia con alcune delle colleghe assaggiatrici.
«Come si diventa amiche? Ora che ne riconoscevo le espressioni, che addirittura le anticipavo, i volti delle mie compagne mi sembravano diversi da quelli che avevo visto il primo giorno.
Succede a scuola, o sul posto di lavoro, nei luoghi in cui si è obbligati a passare tante ore della propria esistenza. Si diventa amiche nella coercizione.»
La trama scorre molto lentamente finché ci sarà una svolta dal punto di vista sentimentale nella vita della protagonista.
Il romanzo è vincitore del Premio Campiello del 2018 ed ha avuto un gran successo fra critica e lettori. Purtroppo sarò una voce fuori dal coro perché a me invece non è piaciuto granché.
Innanzitutto, a livello di contenuto, è molto povero: non succede quasi niente e la storia rimane sullo sfondo, una bella cornice fuori dal quadro; qualche episodio volutamente inserito in mezzo ad una storia d'amore impossibile con l'affascinante cattivo. Ed anche la storia d'amore rimane fredda e poco coinvolgente.
So che in molti hanno lodato lo stile della scrittrice: ahimé, anche su questo aspetto non sono riuscita ad apprezzare il romanzo. L'autrice ha un modo di scrivere esageratamente retorico, che in diversi momenti sfiora la banalità.
«Eccoli, gli occhi di Gregor, gli occhi che mi avevano setacciata, il giorno del colloquio allo studio, quasi volessero rovistare dentro, individuare il nucleo, isolarlo, sfrondare il resto, accedere direttamente a ciò che mi rendeva me.»
É uno stile che può piacere, potrebbe essere definito elegante e raffinato. Io purtroppo ci ho letto invece tanta artificiosità non accompagnata da un contenuto coinvolgente.
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Le assaggiatrici di Hitler
Le assaggiatrici, libro vincitore del Premio Campiello 2018, che ancora una volta incontra i miei gusti di lettrice.Dopo averlo scartato a lungo, mi sono lasciata convincere alla lettura proprio dalla vittoria al premio e devo ammettere che ne è valsa la pena.
La storia è stata ispirata dalla scoperta dell'esistenza ancora in vita di una delle Assaggiatrici di Hitler, gruppo di donne selezionate dalla SS nella Prussia Orientale per provare i pasti del Furer prima che gli fossero serviti, in modo da scongiurare avvelenamenti.
Siamo nel pieno della guerra, tutte le donne ne sono segnate e con delicatezza e attenzione, l'autrice cerca di mostrarne tutte le sfaccettature, le donne spaesate, senza marito, famiglie distrutte, SS rigorose che eseguono il proprio dovere e sembrano lontani da qualunque rimorso.
Il gruppo di donne, molto schive all'inizio, inizia a condividere, per forza e per scelta, i propri drammi, i propri sogni, il proprio tempo libero. Alcune si scontrano, altre si coalizzano, incontrano nello stare insieme il solo modo per trovare la forza di andare avanti.
La protagonista, spaesata e confusa, sopravvive al periodo più difficile della sua vita, si porta avanti a fatica, si lascia andare, ma la vita che ha dentro e l'istinto di sopravvivenza è più forte della sua stessa volontà. Si lascia trasportare attraverso gli anni difficili della guerra, fino a venirne fuori, sola ed ammaccata, portando su di sè i segni indelebili di quanto vissuto.
Un linguaggio delicato e profondo, i sentimenti che guidano il lettore attraverso la narrazione, trapelando dalle parole e spostandosi addosso a chi legge.
Un bel libro, che si legge con estremo piacere ed estrema facilità, nonostante il dramma che nasconde, nonostante la tristezza della storia.
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Amici così, nella segregazione
Le assaggiatrici di Rosella Pastorino – premio Campiello 2018 - sono un gruppo di donne selezionate come cavie: il loro compito è quello di anticipare i possibili effetti di un avvelenamento delle pietanze destinate al Führer (“La colazione, che noi facevamo subito, mentre Hitler la faceva intorno alle dieci, dopo aver ricevuto le notizie dal fronte”).
Tra le assaggiatrici (“Ulla era un bocconcino, così la chiamavano le SS”), alcune si caratterizzano per personalità: su tutte, la narratrice Rosa e la rustica, misteriosa Elfriede che, dopo alcuni cointrasti iniziali, raggiungono un’intesa essenziale ancorché spigolosa (“Si diventa amici così, nella segregazione”). Ed è proprio lo spirito di solidarietà che si crea tra Le assaggiatrici (“Che la vedovanza, effettiva o potenziale, fosse una condizione comune non mi consolava”) – sotto il comune denominatore della paura – l’elemento che infonde ritmo narrativo a un romanzo che ripercorre in forma romanzata la follia di Hilter e alcuni episodi degli anni della dittatura nazista e del suo delirio imperialista.
Rosa vive con i suoceri, attende il marito inviato al fronte in Russia (A Natale “Gregor sarebbe venuto a Gross-Partsch!”) e, quando apprende che risulta disperso, si abbandona alla disperazione, alla quale tenta di reagire seguendo gli istinti che – nell’astinenza forzata – la convincono a cedere all’assedio notturno di uno spietato tenente delle SS.
Tra la fame inquinata dal terrore di finire avvelenata (“Ho la nausea, ammise Heike”), le giornate trascorse sotto la vigilanza dispotica delle SS e la frequentazione della tenuta della baronessa Maria, il romanzo propone, da un’insolita visuale (“Adolf Hitler era un essere umano che digeriva”), la rilettura di una delle peggiori pagine della storia del XX secolo.
Il finale, la parte terza del romanzo, è molto retrospettivo, colpevolista e da reduci.
“Ma non avrei potuto raccontargli della mensa di Krausendorf senza parlargli di chi aveva mangiato tutti i giorni con me, una ragazza con la couperose, una donna con le spalle larghe e la lingua lunga, una che aveva abortito e un’altra che si credeva una maga, una ragazza fissata con le attrici del cinema, e un’ebrea. Avrei dovuto dirgli di Elfriede, la mia colpa. Quella che sbaraglia tutte le altre, nell’inventario delle colpe e dei segreti. Non avrei potuto confessargli che mi ero fidata di un tenente nazista, lo stesso che l’aveva mandata in un lager, lo stesso che io avevo amato. Non ho mai detto nulla, e non lo dirò. Tutto quello che ho imparato, dalla vita, è sopravvivere.”
Secondo un articolo recente, esisterebbe un’applicazione/algoritmo con la quale “costruire” un libro di sicuro successo… e questo romanzo corrisponderebbe alla formula…
Giudizio finale: venefico, mitridatico, tossico.
Bruno Elpis
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La storia di Margot Wölk
L’autrice racconta, nella nota finale, che l’idea per la storia del libro è nata leggendo su un giornale un trafiletto su Margot Wölk, l’ultima assaggiatrice di Hitler ancora in vita. Infatti la storia verte proprio sul contrasto tra fame e paura, quando le SS ordinano: “Mangiate”, davanti al piatto traboccante è la fame ad avere la meglio; subito dopo, però, prevale la paura: le assaggiatrici devono restare un’ora sotto osservazione, affinché le guardie si accertino che il cibo da servire al Führer non sia avvelenato.In questo clima surreale però l'autrice è brava a far risaltare l'intreccio di alleanze, amicizie e rivalità sotterranee.
Concludo estrapolando un passaggio che mi è piaciuto
Perché, da tempo, mi ritrovavo in posti in cui non volevo stare, e accondiscendevo, e non mi ribellavo, e continuavo a sopravvivere ogni volta che qualcuno mi veniva portato via? La capacità di adattamento è la maggiore risorsa degli essere umani, ma più mi adattavo e meno mi sentivo umana.
Particolare
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Si può smettere di esistere anche da vivi.
«Si può smettere di esistere anche da vivi; Gregor forse era vivo, però non esisteva più, non per me. Il Reich seguitava a combattere, proteggeva Wunderwaffen, credeva nei miracoli, io non ci avevo mai creduto. La guerra continuerà finché Goring non riuscirà a infilarsi i pantaloni di Goebbles, diceva Joseph, la guerra sembra dover durare in eterno, ma io avevo deciso di non combattere più, mi ammutinavo, non contro le SS, contro la vita. Smettevo di esistere, seduta sul pulmino che mi portava a Krausendorf, la mensa del Regno.»
Donne. Sono tutte donne le protagoniste de “Le assaggiatrici” ultimo romanzo di Rossella Postorino. Si chiamano Rosa, Elfriede, Leni, Ulla, Beate, Heike, Augustine, Theodora, Sabine e Gertrude e ogni giorno, vengono prelevate – tutte e dieci – dalle loro abitazioni e dai loro cari, per assaggiare il pasto del Fuhrer. Ed è attorno alla tavola imbandita del quartier generale di Wolfsschanze che si snodano le vicende. E più precisamente queste si articolano con quella consapevolezza e certezza che quel boccone ingurgitato per forza e per fame potrebbe essere l’ultimo. È un privilegio essere scelte perché i tempi non sono dei migliori (1943) e perché è un onore poter sacrificare la propria vita per il dittatore tedesco, tuttavia è al contempo un colpa perché questa non è certo una morte da eroi. In questa coscienza il gruppo femminile si divide in coloro che sostengono e sono fiere del ruolo che ricoprono da un lato, e dall’altro si ergono invece coloro che vi si abbassano perché non hanno scelta, perché la paga è lauta e necessaria alla famiglia e/o ai cari che le aspettano, perché semplicemente non hanno motivo per non farlo perché sole, perché abbandonate, perché private della gioia e della voglia di vivere. I loro caratteri spigolosi, i loro gesti di stizza silenziosa o di ribellione tacita non mancano ma prevale, nondimeno, il loro disincanto, la loro disillusione, la loro arrendevolezza alla condizione di “sopravvissute”, ancora per un pasto, ancora per un giorno, forse.
Rosa Sauer, ex segretaria berlinese, protagonista e voce parlante del testo, è tra queste ultime. Le giornate scorrono monotone per lei che da quando ha appreso dell’esser disperso del marito Gregor ha perso ogni stimolo o voglia di alzarsi dal letto. Sarà l’incontro e il conseguente rapporto che nascerà con il tenente delle SS Ziegler a darle la forza di andare avanti, di appigliarsi a quel fuoco che le brucia dentro, a credere nella possibilità di un dopo. E sarà sempre quest’ultimo a salvarla. Nonostante tutto, nonostante tutti.
Ispirato alla vita di Margot Wolk, ultima assaggiatrice di Hitler, venuta a mancare nel 2014 e per poco non incontrata dalla Postorino, “Le assaggiatrici” offrono un interessante punto di vista sul tema del nazismo e su quello della sopravvivenza. Nella lettura il lettore si sente parte delle vicende riuscendo a indossare i panni dell’una o dell’altra eroina descritta. Ciò è concesso anche dalla forma narrativa adottata alla narratrice. A tratti questa assume le vesti della rievocazione, a tratti la forma del diario, a tratti si ascoltano i pensieri di Rosa, le sue impressioni, le sue paure, i suoi dubbi e quel che la fa arrabbiare e indispettire, come se al suo fianco vi fosse proprio chi legge. Merito di ciò è proprio la linearità, la capacità analitica e criptica che non si perde in prolissitudini, della scrittrice. E questo è anche ciò che rende autentico, concreto e veritiero lo scritto. Eppure è proprio – e sempre questa – scrittura ad avere anche un ulteriore risvolto meno positivo sul lettore: se da un lato l’eleganza e questo alternare di rievocazione tra ieri e oggi è l’elemento portante e forte del componimento, al contempo ne è anche l’elemento negativo perché tiene il conoscitore sempre a “distanza”. È come se tra chi scrive e chi legge vi fosse un “vetro”. Si è al fianco delle protagoniste ma non “dentro” le medesime. Si apprendono i pensieri e le impressioni ma in modo analitico quasi come se Rosa stessa, a mezzo e voce di Rossella, si stesse psicanalizzando.
Resta comunque una testimonianza pregevole e di grande interesse che merita di essere gustata e assaporata. Consiglio anche la lettura della vita della ormai defunta Margot Wolk perché elemento necessario per approfondire la tematica e in un certo senso concludere il volume stesso della Postorino.
«Come si fa a dare valore a una cosa che può finire in qualsiasi momento, una cosa così fragile? Si dà valore a ciò che ha forza, e la vita non ne ha; a ciò che è indistruttibile, e la vita non lo è. Tant’è vero che può arrivare qualcuno a chiederti di sacrificarla, la tua vita, per qualcosa che ha più forza. La patria, per esempio.»
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Vittime
Ulla, Beate, Leni, Elfriede, Heike, Augustine, Theodora, Sabine, Gertrude e Rosa, la narratrice: cosa accade al corpo e all’anima di dieci donne preposte ad assaggiare il cibo potenzialmente avvelenato di Adolf Hitler?
“Quando si mangia si combatte con la morte, diceva mia madre, ma solo a Krausendorf mi era sembrato vero” (p.108). Le protagoniste nello stomaco hanno il buco di fame e paura. Buon appetito, è il ghigno feroce che le accompagna.
“Abitavamo un’epoca amputata, che ribaltava ogni certezza, e disgregava famiglie, storpiava ogni istinto di sopravvivenza” (p.192). Obbligate a mangiare forzatamente la torta, le uova al cumino, il purè di patate, mentre gli altri muoiono di fame, le donne vengono addomesticate nel fetore della paura. Non uomini o soldati, le dieci assaggiatrici sono donne, in prima linea, a mostrare il privilegio impietoso di poter mangiare in abbondanza in un periodo di magra per tutti. Sono berlinesi, ma nessuna si sente una buona tedesca come viene loro insegnato. “Odiare, diceva la mia professoressa di Storia al liceo, una ragazza tedesca deve saper odiare” (p.85).
Contrastare, sovvertire, deridere l’esistenza, è questa la regola del Führer: la vita è poco, quella di una donna è meno. Mentre agli uomini è richiesto di morire da eroi in battaglia, le donne possono incontrare una morte simile a quella dei topi, con la docilità delle vacche, come “a spiare le budella di Hitler”. La follia mostruosa proietta all’esterno la minaccia del veleno che corrode e uccide e così il dolore diviene un tratto della personalità e rende inquietanti i messaggi sottintesi. Il risultato produce follia e Rosa lo ammette. “Accadeva da mesi. Uno scollamento fra me e le mie azioni: non riuscivo a percepire la mia presenza” (p.116).
La vittima sacrificale non è mai stufa di vivere. “Ma ci sono io: non puoi aver paura. Assaggio il tuo cibo come la mamma si versa sul polso il latte del biberon; come la mamma si ficca in bocca il cucchiaio della pappa, è troppo caldo, ci soffia sopra, lo sente sul palato prima di imboccarti. Ci sono io, lupacchiotto. È la mia dedizione a farti sentire immortale”( p.179).
A causa di un maternage immorale, la vittima pensa continuamente di finirla, ma si riconsegna al compito di salvare. In situazione di sudditanza, di vessazione continua, di violenza morale, le donne si abituano ad un torpore di dimenticanza e sopravvivono assumendo sulla propria coscienza una colpa senza senso. Così, muoiono un po' per volta, convincendosi orgogliosamente della bontà del proprio ruolo di non esistenza, purché il monarca sia salvo.
L’astuzia del potere si manifesta con la prevaricazione, con l’oscenità della violenza morale: va in scena, quotidianamente, la banalità del male. Il peccato mortale del potente è nell’azione demoniaca di annullare la dignità dell’altra che finisce per sentirsi persona immeritevole e giustamente immolata per la salvezza illusoria del suo persecutore. “Non merito nulla, a parte ciò che faccio: mangiare il cibo di Hitler, mangiare per la Germania, non perché la ami, e neanche per paura. Mangio il cibo di Hitler perché è questo che merito, che sono” (p.82).
Sapere di poter disporre dell’altro è la vertigine, il godimento del monarca “a nome di tutto il genere maschile”. E le donne riescono tardi e male a fare comunità, ad unirsi complici, pur riconoscendo un irreparabile desiderio di ritrovarsi umane, sane, amanti, vive, degne. E la colpa di sopravvivere ogni giorno si fa ventre originario del pericoloso legame fra Rosa e il tenente delle SS Ziegler. Nel profondo del suo cuore, Rosa sa che “non esiste alcuna ragione per abbracciare un nazista, neanche averlo partorito” (p.244). Non chiediamoci più perché una donna non ce la fa a denunciare subito, ad uscirne viva, ad urlare, ma tace, si avvicina al pericolo, quasi, lo cerca. Il male che il potere agisce contro l’essere umano è tale che lo stesso individuo che ne fa uso è, esso stesso, vittima. Margot Wölk, l’assaggiatrice di Hitler, muore prima che Rossella Postorino possa intervistarla. Ringrazio l’autrice per aver scelto, scrivendo il romanzo, di non consegnare all’oblio la storia.
“Io non sapevo se il resto della specie preferisse vivere da miserabile, pur di non morire; se preferisse vivere nella privazione, nella solitudine, pur di non calarsi nel lago di Moy con una pietra al collo. Se considerasse la guerra un istinto naturale. È una specie tarata, quella umana: i suoi istinti, non bisogna assecondarli” (p.250)
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“Le donne non muoiono da eroi”
La mamma assaggia la pappa del suo bambino, per controllare che non sia troppo calda, troppo salata.
Un gesto pieno di amore e dolcezza.
Intorno alla tavola imbandita al quartier generale di Wolfsschanze, nascosto nella foresta prussiana, ci sono dieci donne, con l’incarico di assaggiare il cibo del Führer. Cosa c’è invece dietro questo gesto?
Terrore, perché ogni boccone potrebbe essere l’ultimo, quello di veleno.
Privilegio, perché nell’autunno del 1943 anche il cibo più misero scarseggia e loro hanno davanti i piatti più gustosi e succulenti di Germania.
Colpa, perché non c’è onore in questa morte in sordina, “una morte da topi, non da eroi”.
È la voce in prima persona di Rosa Sauer, ex segretaria berlinese, a raccontarci la propria storia e quella delle altre assaggiatrici. La ragazza con la couperose e lo sguardo insicuro, che sogna amore e protezione. La donna dalla lingua tagliente e i gesti apparentemente astiosi, in cui si può indovinare paura. La giovane madre che crede di essere maga e si sente investita di un’importante missione patriottica. Sono donne sole e spaesate, che si ritrovano all’improvviso in un mondo senza uomini, costrette a piegarsi a un’organizzazione che non lascia scampo. Solo così si può sopravvivere, assorbendo nel proprio corpo quel boccone buono e amaro, abbandonandosi a un desiderio che sa di vergogna, eludendo una verità che non si vuole davvero conoscere.
Con questo romanzo, Rosella Postorino ci offre un punto di vista originale non tanto sul nazismo quanto sul tema della sopravvivenza. Una narrazione sobria e ordinata, caratterizzata da uno stile limpido e senza fronzoli, ci accompagna in una storia al femminile, analizzando i rapporti umani, i sentimenti, le paure e le meschinità di chi, ai margini della guerra, ha cercato solo di non farsi sopraffare. Per scoprire così che anche la sopravvivenza ha un prezzo.
"...Perché, da tempo, mi trovavo in posti in cui non volevo stare, e accondiscendevo, e non mi ribellavo, e continuavo a sopravvivere ogni volta che qualcuno mi veniva portato via? La capacità di adattamento è la maggiore risorsa degli esseri umani, ma più mi adattavo e meno mi sentivo umana".
Idea interessante, punto di vista originale, scrittura curata ed elegante. Eppure devo confessare di aver sempre avvertito, durante la lettura, una certa distanza dalla storia e dai personaggi, persino dalla protagonista. La narrazione scorre disciplinata, lucida e piana, trattenendo sempre sussulti ed emozioni, ed è proprio questo ad aver in parte impedito, almeno nel mio caso, un vero e proprio coinvolgimento.
Una lettura da consigliare, comunque, per interrogarsi su quale sia il prezzo dell’adattamento anche oggi, nel nostro mondo.
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UN'ALTRA TESTIMONIANZA PER NON DIMENTICARE
La protagonista di questo romanzo è Rosa Sauer, il suo personaggio è ispirato alla storia vera di Margot Wolk, che è stata una delle quindici assaggiatrici di Hitler.
Queste donne tedesche sono state costrette ad assaggiare le pietanze prima che le mangiasse il Fuhrer, per assicurarsi che il cibo fosse buono e non avvelenato.
Da un lato c’era la certezza di avere un pasto sicuro, questo era importane perché durante la guerra il cibo era molto scarso, ma dall’altra parte ogni boccone poteva essere fatale per queste donne.
Tutti i giorni queste giovani venivano prelevate dalle loro case e dopo aver mangiato, l’ora successiva era cruciale per capire se c’era il veleno o meno, si sospettava infatti che fossero gli inglesi ad avere intenzione di avvelenare il cibo.
Nel romanzo in particolare, Rosa è una donna sposata ma non è una nazista, lei come i suoi genitori non crede alla politica di Hitler, ma non ha scelta deve diventare un’assaggiatrice.
Nel gruppo di donne dove c’è anche Rosa, possiamo distinguere due categorie, quelle che lo fanno credendo alla loro causa, credendo di aiutare in qualche strano e assurdo modo il proprio paese,mentre le altre hanno paura per la loro sorte e per quello che può accedere.
C’è chi piange al primo boccone e chi invece,lo fa solamente dopo aver capito che il cibo era buono e che la loro vita era salva, almeno fino al prossimo pasto.
Le assaggiatrici venivano pagate, ma la cifra era veramente irrisoria e quasi ridicola visto che queste donne mettevano in gioco la propria vita pur di salvarne una sola. E soprattutto quello che trovo agghiacciante è che loro non potevano scegliere se farlo o no, erano obbligate.
Rosa inizia la sua attività nel 1943, suo marito Gregor è ormai in guerra da anni, e la donna vive con i suoceri, perché non ha più nessuno della sua famiglia.
In questo libro vediamo anche il grande dolore che affrontano i genitori quando i loro figli vengono arruolati e vorrebbero per loro una vita diversa e in fondo, sperano che loro possano tornare un giorno e vivere felici, anche se molte volte questo non succede.
Nel corso della libro, Rosa racconta la propria storia e capiamo quali siano i suoi sogni, le sue speranze e quali siano i suoi sentimenti, ma purtroppo per la protagonista, il dolore e la sofferenza non sono finiti.
La vita di queste persone non potrà più tornare come prima, quello che hanno subito, quello che hanno visto è veramente terribile e ogni testimonianza è preziosa per non dimenticare.
Sicuramente questa guerra e tutto quello che è successo non ha portato a nulla, se non a dolore e separazione, ma quelli che sono sopravvissuti e che hanno visto cambiare i tempi fino ai giorni nostri, si portano dietro un carico di ricordi e di angoscia che non li lascerà mai. E alcuni non c’è l’hanno fatta a sopportare tutto questo e altri invece, forse pochi, combattono per riuscire a costruirsi una vita quanto meno “normale”.
Questa storia mi ha toccato, mi dispiace che la storia sia inventata e che non abbiamo potuto leggere quello che è successo veramente a Margot, perché come sappiamo la donna è da poco scomparsa.
Sono riuscita ugualmente ad affezionarmi al personaggio di Rosa e a combattere con lei sperando che prima o poi riuscisse ad essere libera.
Lo stile dell’autrice è molto scorrevole, incisivo e riesce a dare rilievo agli eventi, dandone la giusta importanza.
Il romanzo per me è stato veramente una testimonianza fondamentale che aggiungerò alle altre sull’argomento, un testo importante e intenso che mi ha fatto riflettere.
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