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Cristo si è fermato ad Eboli
 
Cristo si è fermato ad Eboli 2025-02-08 17:18:23 Calderoni
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Calderoni Opinione inserita da Calderoni    08 Febbraio, 2025
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Negato alla Storia e allo Stato

«Serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato»: è questo il manifesto che presenta i luoghi in cui l’io narrante è stato confinato per ragioni politiche (non si parla mai approfonditamente delle cause, vengono invece specificate quelle di altri due confinati: uno è un muratore comunista di Ancona, l’altro uno studente di scienze politiche di Pisa, ex ufficiale di Milizia, anch’egli comunista) in una condizione di «vita sotterranea». È un io narrante che ha studiato medicina ma non pratica la professione da medico ed è molto appassionato di arte, il suo hobby preferito è la pittura. I luoghi di cui si parla sono quelli della Lucania, da «Lucus a non lucendo», letteralmente la terra dei boschi che però si staglia sullo sfondo come «tutta brulla». Il periodo storico in cui si colloca la vicenda è quello della politica imperialistica del Fascismo: siamo negli anni Trenta durante le guerre di espansione in Eritrea e in Etiopia. L’intento di Carlo Levi è riassunto fin dalla premessa del testo: «Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né l’anima individuale, né la speranza, né il legame tra le cause e gli effetti, la ragione e la Storia». I primi che non si sentono cristiani sono i contadini che popolano queste terre. Non si sentono cristiani perché nel loro linguaggio vuol significare essere uomini. Invece, in questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale ma è un dolore terrestre, Cristo non è disceso. L’io narrante è stato confinato dapprima a Grassano, poi è stato trasferito a Gagliano e proprio in questa seconda località si svolgono la maggior parte dei fatti.
È un libro ricco di personaggi e ricco di socialità. Proprio questa fitta rete di personaggi permette di addentrarsi nel mondo di Gagliano. Il primo personaggio in cui ci si imbatte è il professor Magalone Luigi, maestro delle scuole elementari ma soprattutto sorvegliante dei confinati del paese. È il podestà di Gagliano, è il principale punto di riferimento fascista della narrazione, è colui che fa da tramite tra i monti sperduti della Lucania e la Prefettura di Matera. Poi, in rapida successione vengono presentati i due “medici” (le virgolette sono obbligatorie considerando le loro competenze scientifiche): il vecchio dottor Milillo e il dottor Gibilisco. Entrambi percepiscono l’arrivo dell’io narrante come una minaccia per il loro monopolio del sapere in ambito medico/scientifico. Interessante la concezione del proprio ruolo da parte del dottor Gibilisco. Per lui l’arte medica non è che un diritto, un diritto feudale di vita e di morte sui cafoni. Non pago ha sistemato le proprie figlie nell’unica farmacia del paese in modo tale da rendere ancor più evidente il monopolio. Ma come rileva l’io narrante «i contadini sono ostinati e diffidenti. Non vanno dal medico, non vanno alla farmacia, non riconoscono il diritto. E la malaria, giustamente, li ammazza». Inoltre, sulla piazza di Gagliano vengono presentati i cosiddetti “signori” del paese, i quali colpiscono l’attenzione per il tono generale di astio, disprezzo e diffidenza reciproca nelle loro conversazioni. La guerra dei “signori” si trova nelle stesse forme in tutti i paesi della Lucania. Tutti i giovani di qualche valore e quelli appena capaci di fare la propria strada lasciano il paese (ciò avviene ancora oggi con la tanto analizzata “fuga dei cervelli”), dove ci restano gli scarti, coloro che non sanno far nulla, i difettosi nel corpo, gli inetti, gli oziosi, i quali vengono resi malvagi dalla noia e dall’avidità. Questa classe degenerata deve per vivere dominare i contadini e assicurarsi i ruoli remunerati del paese, come quelli di maestro, farmacista, maresciallo dei carabinieri, prete. In realtà, il prete di Gagliano è un personaggio del tutto sui generis: si chiama don Giuseppe Trajella, è finito per punizione a reggere questa parrocchia ed è del tutto avverso alla comunità. Vive in uno stato di semiabbandono fisico e cognitivo, sebbene in passato abbia avuto esperienze di studio e di vita importanti. L’io narrante dice che «doveva essere stato un uomo buono, intelligente, pieno di spirito e di risorse. Scriveva vite di santi, dipingeva, scolpiva, si occupava vivacemente delle cose del mondo». A Gagliano è invece diventato un relitto posto su una spiaggia inospitale. In questo universo prettamente maschile spicca una donna sopra tutte le altre: donna Caterina Magalone Cuscianna, sorella del podestà, la vera padrona del paese, molto più acuta intellettivamente del fratello; sapeva di poter fare su di lui qualsiasi cosa pur di lasciargli l’apparenza dell’autorità. Tra l’altro, in quel dato periodo era senza il marito perché era l’unico volontario di Gagliano per la guerra in Africa, perciò donna Caterina era moglie di un eroe. Per donna Caterina l’arrivo dell’io narrante in paese è una benedizione perché attraverso le sue competenze mediche avrebbe potuto finalmente rovinare il dottor Gibilisco e il suo monopolio medico; in effetti, il dottor Gibilisco è una severa minaccia per l’onore della sorella del podestà perché una delle sue figlie farmaciste se la intendeva un po’ troppo con suo marito e la gente mormorava eccessivamente su questo disdicevole fatto.
Nella fitta rete di personaggi un ruolo meno distinto ma non meno importante lo hanno i contadini, coloro che non si possono sentire cristiani per le condizioni nelle quali sono perpetuamente costretti a vivere da secoli. Per loro «c’è la grandine, le frane, la siccità, la malaria, e c’è lo Stato. Sono dei mali inevitabili, ci sono sempre stati e ci saranno sempre. Per i contadini, lo Stato è più lontano del cielo, e più maligno, perché sta sempre dall’altra parte. Non importa quali siano le sue formule politiche, la sua struttura, i suoi programmi. I contadini non li capiscono, perché è un altro linguaggio dal loro, e non c’è davvero nessuna ragione perché li vogliano capire». La massa dei contadini è ricca di persone che hanno provato a coltivare il “sogno americano”, hanno attraversato l’oceano, sono arrivati negli States e lì hanno vissuto come avevano sempre fatto nella loro Lucania, ovvero lavorando la terra quanto più possibile. Poi, sono stati attratti dal ritorno, magari forti del gruzzolo accumulato, dalle condizioni favorevoli decantate in Italia. Tempo un anno e si sono ritrovati nelle medesime condizioni di quando erano fuggiti, riavvolti nella medesima condizione di perdizione, di smarrimento anche di Cristo. Una condizione alla quale sei destinato fin da infante. I bambini che l’io narrante incontra per le vie del paese «avevano qualcosa dell’animale e qualcosa dell’uomo adulto, come se, con la nascita, avessero raccolto già pronto un fardello di pazienza e di oscura consapevolezza del dolore. I loro giochi non erano i soliti dei bambini del popolo delle città. Erano chiusi, sapevano tacere, e, sotto l’ingenuità infantile, c’era l’impermeabilità del contadino, sdegnosa di impossibili conforti, il pudore contadino, che difende almeno l’anima in un mondo desolato». L’unica capacità di espressione utile per i contadini era l’arte, non avevano potuto farlo con il diritto e con la violenza, quindi provavano con l’usanza di recitare una loro commedia improvvisata per esprimere il loro sdegno. In una tragedia senza teatro come la loro vita questi residui di arte antica e popolare erano un loro moto spontaneo di rinascita.
Come si può intuire dalla pratica paramedica proposta dal dottor Milillo e dal dottor Gibilisco, il mondo di Gagliano e più in generale della Lucania è popolato da leggende, miti, riti, false conoscenze. Un mondo selvaggio, quasi primitivo, lontano anni luce dalla civiltà novecentesca. Un mondo stregonesco, tanto che Giulia, domestica che si occuperà della casa dell’io narrante per alcuni mesi del soggiorno, è a tutti gli effetti etichettata come una strega. Rispetto alle credenze diffuse un esempio vale per tutti. L’aria, a detta di chi viveva quelle terre deserte e tra quelle capanne, era piena di spiriti, alcuni maligni e bizzarri come i “monachicchi”. Si narra infatti che al crepuscolo, in ogni casa, scendono dal cielo tre angioli, uno si mette sulla porta, uno viene alla tavola e il terzo a capo del letto. Guardano la casa e la difendono; e così né i lupi né gli spiriti cattivi ci possono entrare per tutta la notte. In questa realtà che si fonda sulla credenza non è un caso che alla metà di settembre nella domenica della Madonna a Gagliano vengano spesi tremila lire, ovvero il risparmio totale di mezza annata, per i fuochi d’artificio. Nessuno rimpiange questa spesa, tanto che per l’occasione si consultano gli artificieri più noti della provincia. I fuochi d’artificio con la loro duplice natura, tra colore e suono, sono emblemi ancestrali, si legano indissolubilmente a dati e a motivi della discendenza o della tradizione sentiti come reconditi o inspiegabili. Fanno uscire dal tempo e dallo spazio, proprio come ha vissuto l’io narrante in una realtà sotterranea durante il suo confino, in una realtà mai toccata nemmeno da Cristo.

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Bentornato , Andrea, con questa bella recensione!
Un libro letto e riletto, molto amato.
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