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BIOGRAFIA INVENTATA DI UN MASANIELLO SICILIANO
«A seguito di l'accordo che questi potenti ficiro, la nostra terra passa da essiri propietà delli spagnoli a essiri propietà di un duca che di nome fa Vittorio Amedeo di Savoja e che pirciò da duca passa a re. E nui semo sempri uguali a cìciri o a favi che s'accattano e si vinnino». […]
«Tu pensi che con questo re cangia qualichi cosa?» fece Giurlannu Cucinotta.
«E che deve cangiari, Giurlà» intervenne Fofò. «L'accanusci la poisia?».
«Quali poisia?».
«Quella che fa: "Tutti lu sannu, lu sapi puro u mulu / ca u viddranu lu piglia sempri 'n culu." Ti piaci la poisia?».
«No».
«Ma la poisia si può cangiari» fece Zosimo. «Accussì, per esempio: "È scrittu 'n celu, lu jorno spunterà / ca futtemu lu Re, u Papa e a Nobiltà." Chista ti piaci?».
«A cangiari una poisia è facili» commentò Giuggiuzzu Siracusano, ch'era il più vecchiu di tutti. «Lu difficile è cangiari lu munnu».
«Volenno, ci si arrinesci» fece Zosimo addiventato serio.
«E comu?» fece Tanu Gangarossa. «Nun avemu né armi né esercitu, siamo soli e abbannunati, nun avemu putiri, nenti, avemu sulu gli occhi per chiangiri...».
«Una cosa l'avemu» disse Zosimo sempri serio. «La fantasia. Che è l'arma più piricolosa.».
Così come Georges Simenon è diventato un autore di straordinario successo grazie al personaggio di Maigret, ma lo si ricorda negli annali di letteratura soprattutto per i suoi “romanzi duri”, allo stesso modo Andrea Camilleri è noto ai più per il suo eroe maggiormente popolare, ovverossia il commissario Montalbano, ma la parte più considerevole dal punto di vista artistico della sua produzione è sicuramente costituita dai suoi romanzi storici. Lo scrittore di Porto Empedocle ama infatti partire spesso da episodi storici documentati, ancorché poco o nulla conosciuti, per poi svilupparli e rielaborarli in maniera del tutto soggettiva e autonoma, creando così una sorta di falso storico, il quale però, un po’ come avveniva per il Thomas Mann di “Giuseppe e i suoi fratelli”, alla fine risulta più verosimile della realtà tramandata dai testi ufficiali. La cosa più notevole è che Camilleri, pur ambientando le sue storie prima del 1900, sembra sempre avere davanti agli occhi la situazione della Sicilia di oggi, la quale appare anzi, con le sue ben note problematiche sociali, economiche e culturali, proprio come la risultante inevitabile e necessaria dei processi storici avvenuti diversi secoli prima. Questo si nota più che mai ne “Il re di Girgenti”, la cui ambientazione è addirittura a cavallo tra Seicento e Settecento (qualche decennio dopo i “Promessi sposi”, tanto per intenderci), all’epoca della dominazione spagnola prima e quella dei Savoia poi, che tanta sofferenza arrecarono, con il loro malgoverno, la loro corruzione, la loro ferocia repressiva, oltreché con l’esosità delle loro tasse e gabelle, alla popolazione dell’isola. Camilleri crea un quadro storico molto circostanziato, citando episodi come il terremoto del 1693, la controversia liparitana del 1711 (già trattata da Sciascia nella sua “Recitazione” scritta trent’anni prima) o la pace di Utrecht del 1713, e all’interno di questa cornice sviluppa la storia di uno dei tanti capipopolo che in quegli anni si fecero portavoce, con rivolte destinate inevitabilmente al fallimento, del malcontento della classe contadina, costretta dai dominatori stranieri a una vita di stenti, di fame e di sofferenza. Il protagonista Michele Zosimo è una sorta di Masaniello siciliano, che grazie alla sua innata intelligenza e alle sue doti di empatia e di saggezza, diventa ben presto il paladino della popolazione di Montelusa contro i soprusi e le soperchierie del potere laico e di quello religioso. Grazie alle sue imprese coraggiose e temerarie, e a dispetto della sua giovane età, riesce a far sì che i suoi concittadini possano superare indenni la carestia (costringendo l’avido vescovo a distribuire obtorto collo le sue ingenti scorte di frumento), a mitigare gli effetti della peste (bruciando tutte le chiese della città e così impedendo gli assembramenti che avrebbero propagato il contagio) e a punire l’odiosa Inquisizione che aveva ucciso il venerato padre Uhù (trasformando il cadavere del poveruomo bruciato sul rogo in una sorta di ordigno devastante). La sua ascesa arriva fino al punto di costituire un piccolo esercito, dare l’assalto al palazzo del Governo e al castello dove sono acquartierati i soldati piemontesi e, una volta conquistata la città, farsi proclamare re, dopo avere inciso sul tronco di un sorbo le proprie leggi rivoluzionarie (curioso anacronismo di un metodo arcaico di far conoscere la legge, quasi una sorta di tavola di Hammurabi vegetale, e di norme che per contro sembrano preannunciare l’Illuminismo o addirittura, in quella idea di fratellanza universale tra popoli, anticipare di due secoli la novecentesca Società delle Nazioni).
Nonostante che il romanzo abbondi di lutti e di tragedie, di sofferenze e di atrocità, e non sia, come è fin troppo facile immaginare, a lieto fine, dal momento che la storia si può sì reinventare con la fantasia, ma non ribaltare nei suoi esiti ultimi (a meno di non trovarsi in un film di Quentin Tarantino), il tono adottato da Camilleri, e la cosa non deve stupire chi conosce almeno un poco l’autore siciliano, è tutt’altro che lugubre e pessimistico. “Il re di Girgenti”, che per inciso è l’opera più lunga e a mio parere anche più ambiziosa mai scritta dello scrittore empedoclino, strabocca infatti di storie picaresche, di aneddoti curiosi e di personaggi originali (si pensi a padre Uhù, che gira per le campagne con la sua croce in spalla in cerca di diavoli da esorcizzare, al mago Apparenzio, che legge il futuro di Zosimo, riconoscendone per primo l’eccezionalità, o il brigante Salamone, che lo incita a “ristari sempri uniti, aiutaricci l’uno con l’àutro” e a guardarsi “dalli nobili e putenti” che “sono latri, sasini e pripotenti”), storie, aneddoti e personaggi che il vernacolo siciliano, che qui per ovvie ragioni (dal momento che il romanzo è popolato soprattutto di “viddrani, bracciatanti e povirazzi”) è più utilizzato del solito, rende assai saporiti e divertenti. In tutto il testo inoltre il realismo di fondo va di pari passo con un tono favolistico, che richiama alla lontana “I nostri antenati” di Italo Calvino o la “Lunaria” di Vincenzo Consolo. Basti pensare alla scena della nascita di Zosimo, con Filonia che si trova a partorire da sola, circondata solamente dalle bestie della casa, le quali, al termine del parto, in una sorta di bizzarra Adorazione in chiave animale, porgono alla madre e al figlio i loro doni: la gallina fa cadere un uovo caldo da succhiare, la capra offre le sue mammelle gonfie di latte e il cane pulisce con la lingua la pelle del neonato il quale, anziché mettersi a piangere come ci si sarebbe aspettato, inizia a ridere di gusto come un uomo fatto. Qua e là fa capolino anche qualche elemento sovrannaturale (come quando Zosimo fa terminare la siccità grazie al rogo dei suoi libri), e ciò ha fatto parlare qualcuno di “realismo magico”, ma questa è solo una suggestione tra le tante, così come lo è l’influenza del Manzoni nelle pagine storiche. Il fatto è che “Il re di Girgenti” è un libro tipicamente camilleriano, a partire dall’evocativo idioletto, che non deve essere confuso con il dialetto siciliano tout court, ma che, per la sua musicalità, a me fa sempre venire in mente il grammelot che ha reso celebre Dario Fo. Ci sono poi i finti documenti storici, i memoriali apocrifi dell’epoca, che Camilleri dissemina qua e là per accrescere l’impressione di verosimiglianza dei fatti narrati. Non manca inoltre il gusto ironico e beffardo con cui lo scrittore affronta anche le tematiche più spinose, e con cui il protagonista si muove sul palcoscenico del mondo e cerca di risolvere tutti i problemi e le complicazioni che si trova di fronte, mantenendo sempre la fantasia a fargli da bussola, da stella polare: si pensi alla burla dell’acqua mescolata all’olio, con cui i concittadini di Montelusa riescono a evitare la requisizione del loro olio e contemporaneamente a far punire dal Viceré l’odioso duca Pes y Pes, o ancora a quella della finta apparizione del santu Campagnolo, orchestrata da Zosimo per placare il senso di colpa dei tanti fedeli che, per non stare né col papa ne col re, non possono più frequentare le funzioni religiose o prendere i sacramenti. Accanto ai topoi, agli archetipi della letteratura camilleriana, è presente però qui per la prima volta un elemento di forte novità rispetto agli altri romanzi dello scrittore di Porto Empedocle, cosa che rende a mio avviso “Il re di Girgenti” forse la sua opera più suggestiva e compiuta. Sto parlando del sentimento, dell’emozione, che tracimano dalle pagine più apologetiche o da quelle più sarcastiche, per dar vita a momenti di pura poesia, e financo di commozione. Quando ad esempio Ciccina, la moglie di Zosimo, muore cadendo da una scala, l’uomo, in preda alla disperazione, corre fino alla grotta di padre Uhù e lì, con un rudimentale flauto costruito con una canna, suona la musica che il vecchio mentore gli aveva insegnato per fermare un istante i morti prima che scendano nel luogo da cui non si torna, e in quel momento Ciccina, evocata da quel suono sconsolato, soffiato nello strumento come se fosse l’ultimo gesto della sua vita, gli appare nella nebbia vestita con l’abito da sposa, mentre si muove lentamente dandogli le spalle e si volta un’ultima volta a guardarlo negli occhi, prima di continuare il cammino e, come Euridice, sparire nell’oscurità. Il capitolo finale è altrettanto meraviglioso, e la scena di Zosimo sul patibolo, che immagina di aggrapparsi al filo di una comerdia, di un aquilone, per volare nel cielo, e da lì osservare, con leggerezza, con liberazione, con allegria perfino, la scena dell’impiccagione e il se stesso che penzola dalla forca, fa capire alla perfezione quanto Camilleri sia uno scrittore di razza, unico e inimitabile.