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Redenta
«[…] E d’un tratto iniziai a piangere, ed era una cosa nuova, perché nella mia vita io non avevo pianto mai e mi faceva specie che il dolore spaccava così il suo guscio e colava fuori, dove potevano vederlo tutti.»
Il suo nome è Redenta ed è nata con la scarogna. La sua è una vita segnata sin da subito da difficoltà e perdita, da una redenzione per un peccato radicato nell’anima. Nata dopo tre figli dati alla luce morti dalla madre, è il frutto di una richiesta della madre fatta al mago di Castrocaro, dove le vicende si alimentano e prendono forma. All’inizio parla poco, quasi nulla, sembra tarda, poi si scopre che al contrario la voce c’è ma non vuole usarla. È una bambina magra ma agile, molto legata alla Fafina e al suo Bruno. Tuttavia, la polio non la risparmia, sopravvive ma resta sciancata a vita. Sarà anche, per altre circostanze, disonorata ma mai perderà la sua indole gentile, dolce, quasi misericordiosa. Il suo animo è intriso di pietà così come profetizzato ancor prima della sua nascita. In realtà il suo è un vivere disilluso, è una donna che non si aspetta nulla dalla vita e che, semplicemente, spera nel mantenimento di una promessa, un giuramento, fatto proprio da Bruno. Le circostanze nefaste, gli anni della guerra, l’arrivo del Fascismo, l’incedere della violenza, renderanno ancora più impossibile che questa promessa venga mantenuta e alla fine per lei, a differenza delle due sorelle, non ci sarà altra sorte se non quella di andare in moglie ad Amadeo Neri, ovvero, Vetro. Se la sorella Marianna si innamora di un uomo e attende il suo ritorno al fronte, Vittoria che dalle sorelle è così diversa, studia per diventare infermiera e poi medico, si trasferisce a Firenze e vive una vita fatta di sapere. Dal momento in cui nella vita di Redenta entrerà Vetro, sarà per lei un peccato costante da espiare per sopravvivere alla bestia, al boia, a colui che l’ha voluta perché così mansueta e perché credeva di poter fare di lei ciò che più voleva. Alla fine, ella, non doveva far altro che far da moglie abbassando il capo e sopperendo ai suoi doveri coniugali, con capo chino e indole silenziosa. Bruno, di contro, crede nei valori, nella giustizia. Per lui non ci sono sfumature.
«[…] E capii perché non s’era più fatto vivo prima: per non mascherarsi nella falsità. Perché queste parole tradivano i suoi sinceri pensieri sulla guerra. Tradivano la sua idea di giustizia. E per Bruno, al di fuori della giustizia, non c’era niente.»
E poi c’è lei, Iris. Tavolicci è il luogo dove nasce e cresce ma è anche il luogo che lascia per seguire la sua intelligenza e cercare un futuro migliore. Cresce tra i banchi della scuola che sua madre ha tirato su arrivando un giorno come un altro da lontano, incinta di lei e senza un marito. Diventa una seconda madre per il fratello Paolo ma poi arriva il giorno di partire; ad attenderla c’è Forlì, c’è il suo lavoro dai marchesi. Qui conosce Diaz ma soprattutto conosce ed abbraccia la causa. Perché gli anni dei soprusi sono arrivati, perché il Fascismo è ormai realtà, perché le camicie nere sono una costante e una certezza e non hanno pietà per nessuno. E c’è l’amore che spinge al sentimento, e c’è la necessità di ripartire e rinascere, credere in un ideale per sopravvivere a quel dolore che sta mietendo dolore, vittime e morte.
«[…] E già sapevo che la violenza o è assoluta o non è niente, e quando non è niente allora puoi sfuggirle.»
Le storie dei protagonisti si uniscono e fondono intersecandosi tra loro e ricostruendosi pagina dopo pagina, sezione dopo sezione. La narrazione si intervalla, lasciando la parola quando a Redenta, quando a Iris, lasciando che le storie di ciascuna diventino una cosa sola. Perché il destino talvolta è beffardo e unisce le strade, modella e plasma le sorti, condivide le ingiustizie e i dolori ma non anche le gioie.
Lo stile narrativo è perfettamente calzante con i tempi che vengono descritti, in alcuni passaggi rischia di essere un poco ridondante ma nel complesso regge bene il susseguirsi degli eventi. Il lettore è colpito e incuriosito da quel che legge, ne è trattenuto. Ogni pagina si cuce nella sua pelle e la curiosità di sapere come andrà a finire la storia delle due eroine, prevale su tutto. È al contempo un libro duro, molto duro. Ci sono alcune scene di violenza che sono talmente vivide da percepirle sulla propria pelle. È, ancora, “I giorni di vetro” un libro che suscita empatia. Notevole anche la ricostruzione storica che accompagna e definisce le vicende.
L’opera di Nicoletta Verna si offre al suo pubblico con la semplicità della complessità taciuta e riesce a delinearsi e a sedimentarsi nel cuore e nell’anima di chi legge.
«[…] E domani ti ricorderà di questa pena e ti sembrerà che non sia mai finita. Perché il male che patisci una volta lo patisci per sempre.»
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Grazie comunque, un saluto
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