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L'Agnese va a morire
 
L'Agnese va a morire 2024-03-26 15:35:18 Bruno Izzo
Voto medio 
 
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Stile 
 
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    26 Marzo, 2024
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Resistenza sempre

Questo è un libro celebrato da sempre come uno dei più emblematici e significativi sulla Resistenza, ed in effetti lo è a pieno titolo. Per più di un motivo, ma essenzialmente perché è in primo luogo una precisa testimonianza diretta di quei fatti, quasi una cronaca in presa reale, anziché una storia romanzata. La prima edizione compare subito, nell’immediato dopoguerra, quando ancora erano vivi nei contemporanei i ricordi di quei tempi tragici ed eroici ad un tempo; perciò, era facile per tanti riconoscersi nei tipi, nelle vicende, nelle paure, nelle speranze e nelle difficoltà comuni e diffuse.
La stessa autrice Renata Viganò, anche se non vive di persona la specifica epopea di questa sua protagonista, non è quindi un racconto strettamente autobiografico, ne è però di sicuro attrice coinvolta ed interessata, seppure per interposta persona, la scrittrice sa perfettamente di cosa parla, partecipò attivamente alla Resistenza con il nome di battaglia “Contessa”.
Tutto quanto sa la scrittrice è brava a renderlo al meglio, con uno stile autentico ed effettivo, talora agile, tal altra scivolosa, spazia con noncuranza dalle aie indiscrete e linguacciute di poderi e fattorie all’umidore e acquosità di paludi, acquitrini ed argini dove si snoda l’intera vicenda.
La scrittrice racconta bene, ma il suo più che altro è un attento riportare, mettendo in ordine un racconto franco, schietto, spontaneo, anche timido e discreto; i fatti che narra sono il risultato di un fortuito incontro con l’Agnese del titolo, che in un certo qual modo le presenta un rapporto di quanto fatto militando nella lotta clandestina. In particolare, nella zona del Ravennate e delle valli di Comacchio, sotto il crudele controllo dei nazifascisti. L’Agnese cosiddetta è una comune donna del popolo, una contadina semplice più che rozza, dotata di buon senso pratico e di una sana e corretta etica elementare, basata su semplici regole di rispetto e solidarietà tra pari, molto più che su cultura ed intelligenza. Non è un’eroina, non ha militato nelle file dei partigiani come attiva forza di fuoco della lotta armata, ha per lo più ricoperto incarichi logistici, non meno rischiosi e passabili di fucilazione, di fiancheggiatrice, di vivandiera, di staffetta, di portaordini segreti, facendo sempre al meglio e più delle sue possibilità. Ed è, oltretutto, una donna anziana, una rarità di operativi in questo tipo di racconti bellici, che nemmeno si rende conto di quanto ha fatto, dell’importanza che rivestono le sue azioni. Non si tratta di un “Uomini e no” alla Elio Vittorini, nemmeno di donne retrograde, ignare, pie e caritatevoli o all’inverso emancipate, una rarità per l’epoca, informate politicamente e dotate di una ben precisa coscienza civica. Qui ad agire non è una giovane emblema della nuova Italia in cerca di riscatto e che sfata luoghi comuni di azioni compiute brutali inadatte al sesso debole, è una donna avanti con gli anni, per nulla ingenua per quanto invisibile, ignara di politica e questioni sociali, sa solo che giocoforza, lo si voglia o meno, non può più stare ai margini di quanto accade.
Non lo può fare più nessuno, sono i tempi ad esigerlo, serve schierarsi, e farlo in fondo e fino in fondo. Nutre più di un dubbio sulla sua effettiva utilità d’agire, se abbia eseguito per bene quanto a lei richiesto dai capi partigiani, come dimostra il suo intercalare allorché la incaricano di svolgere certe azioni rischiose, risponde inevitabilmente con un “…se sono buona”.
Vale a dire se ho ben capito, se ne sono in grado, se non combino pasticci, non si tira mai indietro e però dubita sempre di essere all’altezza di quanto le richiedono, malgrado l’evidente stima e soddisfazione dei suoi compagni di lotta. Per loro è una mamma, più che una compagna: in verità, anche il loro è ancora un retaggio di un antico stereotipo, Agnese neanche ha figli suoi.
È stata dapprima una moglie, a cui i nazisti hanno deportato ed ucciso il marito, lui sì vecchio militante comunista nella guerra partigiana dagli inizi, ma non è entrata in clandestinità per spirito di vendetta. L’adesione, la spinta ad operare fattivamente in quello che solo la sua coscienza, spontaneamente e non per riflessione politica, le suggerisce, è avvenuta dopo qualche tempo quando, ferita, amareggiata ed oltraggiata dalla disumana violenza e cattiveria gratuita dei nazisti, ne fa fuori uno, dovendo poi sfuggire all’inevitabile rappresaglia.
Restando al fianco dei suoi ragazzi fino all’estremo sacrificio, di lei resterà solo un mucchio di stracci nella neve sporca: e però verrà pure il disgelo, e quei cenci avranno contribuito anche loro a tessere lo stendardo delle persone libere. Senza, sarebbe un vessillo lacerato in qualche punto.
L’originalità del racconto sta in questo, la protagonista non è una classica eroina romanzata, una ragazza bella brava e buona, abile e audace, che arrischia la vita in tribolanti avventure per un’idea di uomini liberi da ogni dittatura, è invece una persona comune, banale, anche paziente, fin troppo, che infine ha detto basta, senza se e senza ma. Non è né un’abile combattente, e nemmeno una decisa e determinata resiliente, è invece un qualunque esponente di una certa umanità.
Il cardine, il fulcro, la vivandiera di quel movimento che spontaneamente, formatosi almeno all’inizio motu proprio, da tanti, di ogni ordine e censo, età, genere, oltre qualsiasi differenza, inizia a muoversi, ad agire. E fa quel che può perché sente da sé quello che deve fare, senza che glielo dica nessuno se non il proprio cuore, mette a disposizione volontariamente le proprie abilità, quello che sa fare meglio, non è una madre ma partecipa, non ha ragazzi propri ma accudisce i giovani, non gli appartengono quei giovanotti imberbi o con le barbe scure, ma per loro si sacrifica, senza esitare.
Perciò resiste, perché non la sua non è insistenza, ma convinzione di essere nel giusto.
Ed è quanto rese vincente la Resistenza, riscattando l’onore svilito del Paese.
Renato Viganò ha reso racconto delle cronache normali dell’epoca, dell’agire eccezionale di quei tempi da parte di tanti, i più, che eccezionali non erano ma furono straordinari, più di tanti saggi fa capire le nostre origini, la nostra storia recente, chi siamo stati, da dove e da chi veniamo.
Certo, è un racconto di neorealismo un po' ingenuo, se vogliamo, molto di parte, distingue nettamente buoni e cattivi, cosa che altri testi dell’epoca, compreso quello citato di Vittorini, evitano, perché la realtà non è mai a colori netti, ma sempre sfumata, rarissimi i bianchi o i neri, molto di più i grigi.
E però, ” L’Agnese va a morire” è un testo importante, è un simbolo, è memoria, è monito, è grazie a lei e quelli come lei se oggi stiamo qui a scrivere, nessuno bussa furiosamente alla nostra porta con i calci dei fucili, costringendoci per sfuggirgli ad andare malvolentieri tra la neve, con le scarpe rotte, eppure bisogna andare. Si deve. Lo capiva Agnese, lo capivano i suoi compagni. E noi.

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"Uomini e no" di Elio Vittorini
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Commenti

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Notevole recensione, Bruno.
Anch'io ho apprezzato questo libro. Mi stupisco non abbia un maggior numero di lettori.
Un plauso all'accostamento a "Uomini e no" , secondo me, il miglior libro di Vittorini.
In risposta ad un precedente commento
Bruno Izzo
27 Marzo, 2024
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Grazie di cuore, fratello!
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