Dettagli Recensione
Mamma Agnese, l’infaticabile
Che cos’è l’Agnese? Questa è la domanda che pone al termine della propria introduzione al volume L’Agnese va a morire di Renata Viganò lo scrittore e saggista Sebastiano Vassalli. Egli aggiunge: «Ebbene, che a questa domanda ognuno cerchi di rispondere come può e come vuole». Personalmente ho provato a farlo.
Innanzitutto l’Agnese di Renata Viganò è uno dei personaggi femminili meglio riusciti della nostra letteratura resistenziale. È un personaggio che prende forma da una donna realmente esistita e realmente conosciuta dalla Vigano, come racconta la stessa autrice nell’articolo La storia di Agnese non è una fantasia, apparso su «l’Unità» nel novembre 1949, poche settimane dopo la pubblicazione del romanzo. Questo aspetto dona maggiore forza alla protagonista indiscussa del volume. Nella Resistenza Agnese nasce staffettista ma diventa con l’incedere della narrazione il centro focale della lotta nelle valli del Comacchio e nella Romagna, tanto da essere responsabilizzata nella propria azione. Penso che l’aggettivo che meglio la personifichi sia infaticabile. È uno straordinario esempio di persona che non conosce la fatica e si adopera ogni qualvolta bisogna farlo. Si impegna senza porre troppe domande perché è donna del fare e dell’agire, non del pensare («io non capisco niente ma quello che c’è da fare, si fa»); del resto, risponde sempre «se sono buona». E lei è buona a fare tante cose ed è soprattutto preziosa perché non si tira mai indietro. Assolve completamente gli oneri del partito, è compagna a tutti gli effetti. Nasce in lei questa esigenza così impellente di mettersi al servizio dei partigiani nel momento in cui le forze nazifasciste catturano suo marito Palita, lo deportano e lo fanno morire di stenti su uno di quei tanti treni verso la Germania. Palita è già lettera morta e riecheggia per tutto il romanzo come un ricordo del passato, di quel periodo antecedente lo scoppio della guerra civile in Italia. Lo sradicamento da casa di Palita rende più evidente l’odio di Agnese verso il nazismo e il fascismo e la spingono a occuparsi di quelle cose di partito che prima di allora erano state di competenza del defunto marito. Il fatto che la costringe a darsi alla macchia è presto trovato: il soldato tedesco Kurt, per giocare, spara al suo gatto nero e lo uccide, lei per vendicarsi uccide lo stesso militare e si dà alla fuga (qui termina la prima di tre parti).
Come aiutare i compagni? Agnese sceglie l’unica via che conosce, quella del lavoro. Prende ordini e svolge ordini, ignara del pericolo. Ha anche una profonda riverenza nei confronti dell’autorità: la parola del Comandante di brigata è una fonte alla quale non può mai venire meno; avere la sua approvazione è benzina nelle membra stanche e provate di Agnese, mentre subire un rimprovero è motivo di profonda delusione (le succederà una sola volta nel finale del romanzo quando sarà costretta a lasciare la base dove si era stabilita per lungo tempo a causa di un aiuto improprio offerto ai pochi compagni della brigata sopravvissuti a una fuga disastrosa). Se la prima fase della sua vita, quella antecedente l’uccisione del soldato tedesco, era stata la più semplice, la più lunga (quasi cinquant’anni), la più comprensibile (con il marito Palita al fianco), la seconda era inevitabilmente la più breve perché era consapevole «che questa vita non era fatta per durare». Non lo era nel piccolo villaggio nascosto tra le canne della valle, dove si era stabilita in un primo momento insieme alla brigata, e non lo sarebbe stata nemmeno dopo a casa di Walter o in un’altra abitazione sulla strada provinciale, a stretto contatto con i nazisti, o ancora da Magon. Era la precarietà la nuova certezza della sua esistenza da combattere con l’abitudine della sua attività da staffettista e da donna di casa per l’intera brigata. Non è un caso che assumerà per tutti il soprannome di «Mamma Agnese», anche se lei madre non lo è mai diventata. Forse, anche per questo, è una mamma severa e dura; in prossimità del nemico tedesco si presenta «con la grossa faccia come di pietra» ma anche con i compagni non la percepiamo mai sorridente e distesa: in scena è sempre silenziosa e rigida.
Tutti noi sappiamo fin dalla prima pagina che Agnese morirà. L’autrice ha voluto dircelo attraverso il titolo. In realtà, con l’avanzare della vicenda il lettore rischia di illudersi e rischia di sperare nella sopravvivenza di questa donna anziana, malconcia e grassa. Supera a più riprese ostacoli di difficoltà sempre crescente, non capitola una, due, tre e quattro volte. La sua fine sembra prossima già al termine della prima delle tre parti in cui è suddiviso il romanzo e invece la sua Resistenza si prolunga per un tempo che appare illimitato, come illimitati sono i giorni di attesa dell’Agnese a completo servizio delle brigate partigiane (giorni grigi, tormentati giorni clandestini). La scrittrice ci preannuncia la fine di Agnese e anche la protagonista sa fin dal principio che dopo il luglio 1943 i guai sono destinati a peggiorare, ma li affronta uno dopo l’altro perché inizia a sapere sempre di più, inizia a capire quelle che allora chiamava «cosa da uomini», il partito, l’amore per il partito; il narratore rileva nel quarto capitolo della terza parte che ormai era consapevole che «ci si potesse anche fare ammazzare per sostenere un’idea bella, nascosta, una forza istintiva, per risolvere tutti gli oscuri». Ecco perché da semplice moglie del compagno Palita diventa dapprima staffettista e poi punto di riferimento per tutti nella valle del Comacchio e in Romagna, tanto che, verso la fine del romanzo, un compagno di nome «La Disperata», in un momento di scoramento, sente la voglia di vedere l’Agnese, la sua faccia dura, di udire la sua voce dura quando diceva: «Questa cosa, quest’altra posso farla io se sono buona» ed erano sempre cose pericolose, rischiava la vita tutti i giorni, lei grassa, malata e anziana. L’Agnese si trova a un tratto immensamente cresciuta, importante, «responsabile» davvero di azioni incomprensibili e di prevedute decisioni. Il narratore ci dice che «il suo cervello lavorava da solo, imparava quanto fosse grande la fatica di pensare anche agli altri».
La Viganò, da ex partigiana, mette nero su bianco quelle che sono le sue considerazioni sull’intervento delle forze Alleate nel Nord Italia e sulla psicologia che avvolgeva l’esercizio tedesco ormai consapevole dell’imminente sconfitta. Non risparmia critiche alle mosse degli Alleati, come nel caso del bombardamento alla casa di Walter, dove si era da poco stabilita Agnese. La scrittrice bolognese ricostruisce quelle che possono essere state le motivazioni che hanno spinto gli aviatori a distruggere una casa bianca fra l’orto e il frutteto che non può mai essere un obiettivo miliare. Scrive: «Forse un aviatore, di buon umore perché rientrava al campo, disse al compagno di volo: - Scommetto che ci prendo in quella casa là - (agli anglo-americani piacciono le scommesse), - e il collega rispose: - scommetto di no. - Allora proviamo? - Proviamo». L’autrice fa percepire tutto il risentimento delle bande partigiane nei confronti degli Alleati, il cui intervento era lento e il più delle volte improduttivo. Nello stesso tempo la Viganò è brava a evidenziare la psicologia perversa dei nazisti, i quali sapendo di essere sull’orlo del baratro decidono di rendere ancor più dura la vita di tutti in quelle campagne, tagliando gli argini e allagando tutte le aree bonificate; decidono deliberatamente di ammazzare campi e vigne, lavoro di anni per ritardare di un giorno, di un mese, di una stagione l’inevitabile disfatta (questo atto segna la fine della seconda parte del romanzo). I nazisti vengono presentati anche per un loro ulteriore difetto: non essere mai riusciti a comprendere fino in fondo l’organizzazione partigiana perché essa sapeva «essere dappertutto, camminare in mezzo ai nemici, nascondersi nelle figure più scialbe e pacifiche». Era, e la Viganò ce lo dice benissimo, «un fuoco senza fiamma né fumo: un fuoco senza segno. I tedeschi e i fascisti ci mettevano i piedi sopra se ne accorgevano quando si bruciavano». L’autrice bolognese non manca, inoltre, di porre l’accento sui tanti altri civili italiani che, pur di non aver problemi con i nazisti, gli si prostrano fino a vendere il loro corpo e la loro anima (vedi le figlie della Minghina, la vicina di casa di Agnese a inizio romanzo). E per restare lontano dai guai chiudono gli occhi e non percepiscono la presenza partigiana, tanto da considerare quei combattenti strani, forestieri, astratti, leggendari.
Infine, un’ultima nota la meritano i compagni della brigata quasi tutti morti nel tentativo di fuggire dalla prigionia di quella caserma che l’acqua prima, il ghiaccio poi avevano reso invivibile. Il loro tentativo di passare nel territorio degli Alleati, previa autorizzazione del Comandante, è straziante. Per un paio di capitoli il punto di vista si sposta completamente da Agnese a questo variopinto gruppo di uomini di tante nazionalità differenti. Il quartultimo e il terzultimo capitolo sono quelli della perdizione di chi è stato uomo. Sono due capitoli intensi, avvolgenti, cupi. La maggioranza di questi compagni cade sotto i fucili tedeschi e si va a conformare a tutte quelle figure uguali incontrate qua e là in ogni guerra, figure di «corpi fermi e distesi, di scarpe con le punte in alto e i chiodi scoperti». Nemmeno l’Agnese, di lì a poche settimane, verrà risparmiata e quel titolo tanto rivelatorio si dimostra così dannatamente reale. L’infaticabile Agnese la lasciamo «sola, stranamente piccola, un mucchio di stracci neri sulla neve».
Indicazioni utili
Commenti
2 risultati - visualizzati 1 - 2 |
Ordina
|
Secondo me, dovrebbero farlo leggere anche alle superiori.
2 risultati - visualizzati 1 - 2 |