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La peste
Se si trattasse di un romanzo scritto ai giorni nostri farebbe molto clamore, verrebbe tacciato di omofobia, di crudezza eccessiva. Insomma farebbe parlare di sé. “La pelle” è invece semplicemente un romanzo disturbante, un pugno allo stomaco, ma dando a queste caratteristiche una connotazione assolutamente positiva. Malaparte con la sua prosa di qualità, a tratti pomposa, barocca, didascalica, fornisce una rappresentazione decisamente realistica della città di Napoli nell’ottobre del ‘43, al momento dell’arrivo degli Alleati a seguito della caduta del Fascismo.
Secondo la visione dell’autore, che narra in prima persona in qualità di ufficiale di collegamento con l’esercito alleato, la città di Napoli è lo specchio di un’Europa intera, di una “civiltà moderna, questa civiltà senza Dio, che obbliga gli uomini a dare una tale importanza alla propria pelle. Non c’è che la pelle che conta oramai”. Il lettore si trova così immerso all’interno di splendide pagine dove la città di Napoli emerge tanto nella sua bellezza quanto nella sua trivialità, in quanto “La peste era scoppiata a Napoli il 1° ottobre 1943...Era quella una peste profondamente diversa, ma non meno orribile, dalle epidemie che nel medioevo devastavano di quando in quando l’Europa”.
“La peste” (doveva essere il vero titolo di quest’opera poi cambiato esclusivamente perché nel frattempo Camus aveva dato alle stampe un libro così intitolato), è la rappresentazione di un degrado morale al quale non vi è rimedio secondo Malaparte. Degrado figlio del proprio tempo, conseguenza della sconfitta italiana, del popolo vinto, per questo colpevole agli occhi di se stesso ed a quelli dei vincitori, che si consegna nelle mani dei “colonizzatori” Alleati cercando di compiacerli. Le conseguenze sono nefaste: “per effetto di quella schifosa peste, che per prima cosa corrompeva il senso dell’onore e della dignità femminile” in città dilaga la prostituzione, compresa quella minorile, si fa mercificazione del proprio corpo, della carne. In aggiunta a questi aspetti la città si mette in vetrina, non esita ad allietare i conquistatori con le usanze, il folklore tipicamente partenopeo, e nemmeno la politica è esente da tutto questo. Secondo Malaparte infatti la voglia di libertà post bellica sfocia in comportamenti ambigui che investono le nuove generazioni: “siete dei poveri ragazzi che si vergognano d’esser borghesi, e non hanno il coraggio di diventar proletarii. Credete che diventar pederasti sia un modo come un altro di diventar comunisti”.
In ogni caso andando oltre alle pagine in cui si parla di guerra, di prostituzione, di politica, oltre la ferocia così squisitamente "Malapartiana", emergono riflessioni di una bellezza unica, pagine in cui la luce della speranza appare nel suo fulgore, descrizioni in cui si evince un rispetto profondo verso tutti coloro che hanno sacrificato la vita in nome della libertà, per salvare tutti gli Altri. Che si tratti di italiani, anglo americani poco importa, il sacrificio li accomuna, li pone tutti quanti sullo stesso piano, a livello di nuovi Cristi del XX° secolo.
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La tua recensione, Gabriele, è come sempre interessante.