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Biografia di una infatuazione
Elizabeth “Lee” Miller è stata una donna dall’eccezionale, multiforme ingegno: fotomodella contesa e ammirata alla fine degli anni ’20; musa ispiratrice del grande fotografo surrealista Man Ray e di Jean Cocteau nelle sue esperienze cinematografiche; essa stessa fotografa di enorme talento, sperimentatrice di tecniche innovative, unica reporter donna ammessa a documentare gli orrori di Dachau; infine moglie e madre e, incidentalmente, cuoca di grandi doti. Molti suoi scatti hanno fatto epoca, ma anche i suoi ritratti sono entrati nella storia della fotografia e persino alcuni suoi piatti sono ancora oggi memorabili.
In questo libro Serena Dandini ripercorre la vita di questa donna straordinaria, attraverso una serie di istantanee che la ritraggono in vari momenti della sua vita, tra il pubblico e il privato: dai primissimi dolorosi anni dell’infanzia dove, figlia adorata di un ingegnere di mentalità sin troppo aperta, si trovò preda di un lupo, travestito da amico di famiglia, agli anni del grande successo come modella e musa dei più grandi fotografi del primo Novecento; dalle sperimentazioni come fotografa, alle atroci testimonianze di reporter sui lager nazisti, sino agli anni del declino fisico. Tanti flash, non rigorosamente in ordine cronologico, che dovrebbero farci partecipi della esaltante, avvincente vita di questa eccezionale donna.
La vita di Lee Miller è stata così tumultuosa e multiforme da sembrare più la trama di un romanzo (o un film) d’azione e avventura che un qualcosa di reale. Tuttavia, nonostante che il materiale a disposizione avrebbe potuto permettere un resoconto coinvolgente e appassionante, il libro della Dandini è tutt’altro che irresistibile. L’A. visibilmente ammaliata dalla figura di questa donna, unica nel suo genere, ne appare da un lato intimidita e dall’altro trascinata verso una pedissequa venerazione (o devota ammirazione, vedete voi) che rende il racconto in genere piatto e convenzionale, quando non si fa prendere la mano dall’enfasi retorica che gonfia oltre le reali necessità anche esposizioni ed episodi sì interessanti, ma non certo eccezionali, che potrebbero essere più compiutamente narrati per renderne meglio partecipi i lettori.
Tra l’altro quasi per ogni episodio narrato l’A. sente il bisogno di confrontare le esperienze della Miller con le proprie, cosa di cui il lettore non sente il minimo bisogno, ma dando così l’impressione di assistere a una sorta di gara emulativa, nella quale la donna di oggi cerchi di ispirare i propri gesti all’archetipo del secolo passato. Tutto ciò non giova alla gradevolezza della lettura. Inoltre ho trovato tutta la biografia pesantemente ideologizzata: ogni comportamento, decisione, attività della Miller è usato come scusa per innalzare un vessillo sia esso del femminismo militante, come dell’antifascismo, del libertarismo o di qualche altro “ismo” per il quale l’A. avrebbe in animo di combattere. Ciò rende il racconto faticoso e “partigiano”, anche quando non ce ne sarebbero gli elementi o la necessità: cioè pure quando i comportamenti, le decisioni, le attività intraprese dalla Miller erano solamente conseguenza delle sue inquietudini di donna, piena di talento, ma pure di tormenti e non sapeva o non riusciva a trovare la sua posizione in questo complicato mondo.
Insomma, il libro tratta argomenti di indubbio pregio e di sicuro interesse, anche perché il nome di Lee Miller, prima, non era particolarmente noto in Italia, ma il suo svolgimento non rende il giusto servizio al tema. Non è raro che subentri la noia leggendo certe sezioni e che sia difficile resistere alla tentazione di saltare a piè pari interi paragrafi.
Anche il titolo, in fondo, è un inganno perpetrato ai danni del lettore: l’esperienza tratta dalla visita ai campi di concentramento nazisti, è vero, marchiò indelebilmente la maturità della Miller, ma ne segnò pure il cambiamento di rotta e, in sostanza, ne determinò la sua uscita dalla vita pubblica, turbolenta e ricca di avvenimenti e stimoli che avevano caratterizzato la sua prima fase. Quindi, venendo a mancare i fatti eclatanti che l’avevano contraddistinta, anche la sua biografia sfuma in un racconto nebuloso e frammentario. Perciò “la vasca del Führer” è solo l’ultimo episodio, quello finale che val la pena narrare, e non già il centro nevralgico della storia come il titolo vorrebbe far supporre.
In conclusione un libro risulta al di sotto delle aspettative, ma ha il merito di attirare l’attenzione su quell’interessantissimo personaggio e sulle correnti artistiche di cui fu partecipe e testimone e spinge a fare ricerche, informarsi altrove su di lei, sul surrealismo e sulle avanguardie.
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