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«Tragedia senza teatro»
Condannato al confino dal regime fascista, Carlo Levi è costretto a lasciare la sua Torino per la lontana e sperduta Lucania. La prima destinazione è il paese di Grassano, la seconda Gagliano, ancora più piccolo e sperduto del precedente. Qui Levi trascorre un intero anno (1935-36) di vita grigia e monotona, dipingendo ed esercitando l'attività di medico per i poveri contadini del posto, completamente abbandonati a se stessi. Soprattutto, ha l'occasione di entrare in contatto diretto con la questione meridionale, di conoscere l'antica civiltà contadina del Sud e di toccarne con mano le tradizioni, i riti, i culti, la profondissima povertà, l'abbandono, l'assenza dello Stato che anzi è percepito come un nemico, con le sue tasse, le sue guerre, le sue leggi misteriose e incomprensibili. Se l'operato dello stato risulta per lo più indecifrabile, il suo risultato, invece, è molto chiaro ed è sempre lo stesso: vessare, opprimere e impoverire ancora di più chi già non ha nulla. Qualche anno dopo, tra il 1944 e il 45, quando ha ormai lasciato la Lucania, Carlo Levi decide di ripercorrere in un romanzo l'anno trascorso a Gagliano, per dare voce a chi non ce l'ha, riflettere sul problema del Mezzogiorno e ipotizzare una soluzione.
In "Cristo si è fermato a Eboli" non accade quasi nulla, gli avvenimenti veri e propri sono pochissimi. Più che raccontare una trama, l'autore descrive una cultura che appare lontanissima nel tempo e nello spazio, con un ritmo lento, scandito solo dal trascorrere delle stagioni, dei lavori agricoli, delle festività religiose.
Di solito per indicare un luogo sperduto e lontano dalla civiltà si dice che è un posto "dimenticato da Dio e dagli uomini". L'espressione "Cristo si è fermato a Eboli" significa esattamente questo: non soltanto Gagliano, simbolo di tutta la Lucania e di tutto il Sud Italia, è stato abbandonato da Dio, ma anche dagli uomini, perché "cristiano" per i contadini significa "uomo". Chi ci vive non è esattamente un uomo, agli occhi degli altri, ma è più simile a un animale. In queste terre aride e brulle, secche e bianche di argilla, inadatte alla coltivazione, falcidiate dalla malaria, il tempo, la civiltà moderna, la storia, le grandi trasformazioni non sono mai arrivate. È un mondo immobile, chiuso, isolato, in cui la morte è la compagna costante dell'uomo, impregnato di magia pagana. Qui si vive a metà del Novecento come si viveva centinaia di anni prima: gli uomini all'alba vanno nei campi a testa china, le donne vestite di scuro e con i volti velati vivono al chiuso delle loro povere abitazioni e i bambini giocano in strada magri e cenciosi, gialli per la malaria. I maestri non insegnano nulla, i medici non curano i malati, il lavoro dignitoso non esiste e dopo la crisi del '29 perfino l'unica speranza di salvezza, l'America, è diventata ancora più lontana e difficile da raggiungere.
"Cristo si è fermato a Eboli" ha avuto un ruolo fondamentale nel sottoporre la questione del Mezzogiorno all'attenzione dell'opinione pubblica e della classe intellettuale. Nelle ultime pagine, l'autore propone un'analisi molto lucida e interessante del problema, di questa «tragedia senza teatro» che è la vita dei contadini meridionali, e suggerisce una possibile soluzione, forse un po' troppo utopistica, ma interessante.
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