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Il bandolo della matassa
Testo dalla difficile classificazione, semmai fosse necessario classificare sempre tutto. Non una biografia in senso stretto, non una biografia romanzata, tutt’al più una biografia indiretta e perché basata su copioso materiale epistolare e perché il polifonismo generato da siffatta corrispondenza è vergata da molteplici voci, tutte protagoniste. É come se la Ginzburg facesse di questo lavoro tardivo una summa della sua narrativa dalla complessa memoria familiare imbevuta e nutrita. Una famiglia intesa in senso lato che fa perno su un suo protagonista, in questo caso il più grande romanziere della letteratura italiana, per irradiare nella fitta rete di relazioni che l’esistenza regala a tutti noi, non solo i membri della genealogia: nonni, figli, nipoti, generi e nuore con i rispettivi nuclei familiari, ma anche, necessariamente, amici, conoscenti, servitù, compaesani, e per finire gli italiani tutti.
Manzoni insomma è qui un ritratto da ricostruire, da assemblare, incrociando la rappresentazione di sé che le sue lettere rimandano alla rappresentazione che ne scaturisce dalle varie lettere che i suoi familiari e amici e conoscenti scrivono al pari di lui.
In sostanza, terminata la lettura, ci si ritrova arricchiti da tante informazioni spicciole, quotidiane che scandiscono l’esistenza in un naturale susseguirsi di gioie e dolori, predominano in realtà questi ultimi e per chi incline a certa malinconia, i più interessanti. Affascina leggere della sopportazione del dolore, dell’indifferenza che si accompagna alla lontananza, del ricercare e quasi inseguire un’amicizia sfumata senza motivo apparente (leggi C. Fauriel, una delle parti più affascinanti della narrazione traslata), del convivere infine con le proprie disillusioni. Una vita lunga, quella del Manzoni, che lo vede sopportare tanti lutti e l’imperfezione delle relazioni umane, lui stesso padre a metà e figlio rifiutato. Affascinante la restituzione dell’epoca, quasi l’intero XIX secolo, e anche oltre perché il libro si chiude con il congedo al figliastro Stefano , morto nei primi del ‘900, un’epoca in cui il peggior disagio è la convivenza con il proprio corpo che si ammala e produce sofferenza in un susseguirsi di rimedi che passando per gli inevitabili e ripetuti salassi, porta sempre ad inevitabile morte. L’aspetto strettamente connesso al concetto di salute e di malattia è trasversale a tutte le corrispondenze e quindi all’intero testo, è portatore di curiosità che rasentano l’alchimia se non la superstizione condita dalla rassegnazione al volere divino, rappresentano una fonte preziosa del sentimento del tempo e in certi casi riescono a stemperare l’eterna tensione che tale groviglio epistolare ricama. Sapevate voi che Teresa Borri Stampa, la seconda moglie di Manzoni, in odor di menopausa, ma eternamente malata immaginaria, fu alle soglie dei suoi cinquant'anni, prossima al limitare della vita in una tremenda notte che invece la portò a sgravarsi delle due gemelle che portava in grembo? Pur trovandosi a leggere della morte dei due piccoli, quella che subentra è una sottile ironia, non voluta da nessuno, tanto meno dalla nostra Natalia che scompare nel testo come nella migliore “eclissi dell’autore” di stampo verista, ma prodotta forse solo dallo stridere dei tempi, è solo un attimo ma il sentimento che genera è quello, presto incanalato da nuove tensioni, nuovi lutti, eterne minacce. Affascinante.
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