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L'alta fantasia
 
L'alta fantasia 2022-02-18 18:02:54 FrancoAntonio
Voto medio 
 
3.3
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
3.0
FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    18 Febbraio, 2022
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Il pellegrinaggio dantesco di Boccaccio

Nel 1350 Giovanni Boccaccio ebbe l’incarico dalla Signoria fiorentina e dalla Compagnia di Orsanmichele, tardivamente rammaricati per il trattamento riservato al loro più illustre concittadino, di recare una borsa di fiorini quale risarcimento per Beatrice, figlia terzogenita di Dante Alighieri, monaca in quel di Ravenna. Al seguito del grande novelliere ripercorriamo il suo pellegrinaggio sulle orme di quelle dell’esiliato Dante, del quale, con frequenti flash back, scopriamo molti episodi della vita, anche quelli più intimi e, forse, meno noti.

Nel settecentesimo anniversario della morte di Dante, Pupi Avati propone questo omaggio al poeta, utilizzando come base di partenza il “Trattatello in laude di Dante” che il novelliere toscano, appassionato “didattico” dell’opera dantesca, ebbe a scrivere, proprio per onorare il suo conterraneo di cui era sconfinato ammiratore.
Questo lavoro di Avati è un librettino piuttosto breve (solo 165 pagine a caratteri piuttosto alti) fatto di tanti rapidi episodi, quasi dei flash sulla vita di Dante e sul faticoso viaggio che il Boccaccio, piagato dalla scabbia, fu costretto a fare per portare a termine il suo incarico. Possiamo così scoprire o riscoprire eventi noti e meno noti della vita di questi due grandissimi letterati che (uno soprattutto nella poesia e l’altro soprattutto nella prosa) hanno posto i fondamenti della lingua italiana.
Sotto questa prospettiva l’opera di Avati è sicuramente meritoria e degna di apprezzamento, anche per la delicata poesia con cui sono trattati gli argomenti..
Il libro, però, è di difficile classificazione, al punto che risulta più agevole dire cosa non sia. Non è una biografia, perché, seppure racconti molte vicende dantesche, non lo si può considerare una trattazione organica né dal punto di vista umano né da quello letterario. La storia dell’Alighieri (e, ancor meno della sua produzione) non ci viene mostrata nella sua interezza, ma, come cennato, solo per immagini, per “perle” staccate di una collana non infilata. E pure ogni singola “perla” si limita a cennare ai fatti, a darne una succinta esposizione, senza aver il coraggio di avventurarsi in una narrazione più approfondita o in una valutazione degli stessi.
Non è neppure un romanzo storico. Infatti, per quanto l’A., come egli stesso riconosce, abbia dovuto aggiungere del suo per dare concretezza alle varie vicende e abbia cercato di contestualizzarle e fornirne un’ambientazione che ci trasporti nel Medioevo dei due grandi uomini, non è stato fatto nessun tentativo vero per dare unitarietà e per drammatizzare le scene. Il fluire degli eventi manca di compattezza, i vari episodi, per quanto possano essere intriganti, ci lasciano insoddisfatti, vuoi per la loro brevità, vuoi per la superficiale sommarietà con cui le situazioni sono descritte.
Non è neppure una sceneggiatura in vista di un film su Dante (peraltro già annunciato e che dovrebbe uscire nel 2022). È pur vero che, a tutta evidenza, ogni capitolo, anzi ogni paragrafo, cristallizza una scena, un’inquadratura particolare, un… "ciak si gira". Addirittura ogni paragrafo è preceduto dalle indicazioni musicali della colonna sonora che, in sottofondo, dovrebbe accompagnare lo svolgersi dell’azione (o della lettura?). Ma complessivamente è solo un canovaccio incompleto che non riesce a farci visualizzare nell’interezza la possibile rappresentazione cinematografica.
Anche lo stile usato è abbastanza ambiguo e un po’ pesante. L’A. non si azzarda a narrare la sua storia col linguaggio agile e fluente dei nostri giorni; infatti spesso si attarda in classicismi, in forme auliche, forse intimorito dal confronto con i due grandi autori. Inframmezza lo scritto con frequenti citazioni dantesche di Boccaccio e di Cavalcanti. Tutto ciò rende la lettura disomogenea e non sempre scorrevole.
In conclusione, quale sia la colpa principale di Avati si comprende da quanto egli stesso confessa nelle note d’apertura (“Circoscrivere Dante nella forma del romanzo mi è parsa impresa impossibile”) e nei ringraziamenti (“Privo di alcuna legittimazione accademica, non avrei mai osato azzardare a mia volta una tale impresa se non avessi potuto contare da subito…”).
Insomma è evidente che Avati, pur autore fantasioso è immaginifico, davanti all’impresa sia stato bloccato da un timor panico, da una soggezione reverenziale. La paura di compiere un gesto in qualche modo sacrilego nei confronti dell’Alighieri sol “inventando”, aggiungendo qualcosa di troppo al mito, lo ha bloccato. Non è riuscito a fare un’opera che, invece, poteva essere di grande respiro e sicuramente di miglior impatto sul lettore, perché nelle righe di questo libro si percepisce l’amore sconfinato che Avati nutre per Dante e la poesia che la sua figura stessa gli infonde. Ma quando ci si fa guidare da amore e poesia, difficilmente si sbaglia, quindi avrebbe potuto osare di più. Ci voleva solo maggior coraggio. Peccato! Davvero peccato!

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Consigliato a chi ha letto...
Comunque consigliato, perché l'opera merita una lettura per riavvicinarsi alle vite di questi due grandi fiorentini.
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