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Un infinito numero
 
Un infinito numero 2021-06-07 10:21:16 anna rosa di giovanni
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3.3
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3.0
anna rosa di giovanni Opinione inserita da anna rosa di giovanni    07 Giugno, 2021
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Dalla violenza alla pace, finchè dura il mondo

UN INFINITO NUMERO (1999) di SEBASTIANO VASSALLI (1941-2015)

“Un infinito numero” non è veramente un romanzo storico, a differenza de “La chimera” (1990); Vassalli lascia infatti che, nel reale, l’immaginario irrompa fin dalle due pagine iniziali in corsivo, che fanno da prologo, quando in “una bella giornata d’autunno” in cui il rumore di trebbiatrici ed aerei sovrasta “lo stormire delle fronde e il cinguettio degli uccelli” (cioè il rumore caratteristico dell’epoca corrente rende quasi inudibile il suono costantemente invariato di fondo), l’autore si ritrova a conversare in giardino con uno dei suoi personaggi, ancora “sconosciuto” benchè lo nomini (“Timodemo”). Guardando altri personaggi che nel frattempo “passeggiavano tra gli alberi e parlavano tra di loro in modo piuttosto animato”, Timodemo osserva che ognuno di loro “sta soltanto recitando una parte: la sua parte, e continua a ripeterla”: insomma, le storie finora scritte dall’autore, le storie di quei personaggi, sono circoscritte, limitate, incomplete. Invece, dice Timodemo, “Ci sono storie che rimangono sospese fuori del tempo perché i loro personaggi ne conoscono soltanto una piccola parte, e perché nessuno riesce a vederle per intero”, storie che rimandano a qualcosa di più ampio e di misterioso. E “il mio amico Virgilio - continua Timodemo -, nei suoi ultimi giorni e mesi di vita, si era reso conto di essere passato vicino a una di quelle storie, e di non avere saputo riconoscerla ...”. Ecco, ciò che da qui in poi leggiamo fino alle due pagine finali anch’esse in corsivo è “la trascrizione (…) di quel lungo monologo”.

1. Dopo questo incipit anodino che ci proietta su un piano fantastico, Timodemo racconta, con una sensibilità moderna, realismo ed uno stile elegantemente scorrevole (gli si perdoni l’uso di “gli” per “loro”), la storia di cui lui è un personaggio insieme a tre dei più famosi uomini dell’Antichità: il poeta mantovano Virgilio (70-19 a.C.), che con Timodemo rappresenta la cultura che il potere cerca di sedurre per servirsene come arma di propaganda; Mecenate (68-8 a.C.), “l’Etrusco”, “uno degli uomini più potenti di Roma, cioè del mondo intero” (p.37), colui grazie al quale “Roma era diventata il centro mondiale, oltre che della politica, anche della letteratura e dell’arte” (p. 41) “l’arbitro della politica e del gusto, il dominatore delle mode e della cultura”; Ottaviano, infine, figlio adottivo di Cesare e futuro primo imperatore romano col nome di Augusto (27 a.C.-14 d.C.). È quindi il I secolo avanti Cristo, e Timodemo, nato in Grecia e venduto ancora bambino ad un mercante di schiavi, da questi fatto allevare come grammatico e poi portato al mercato degli schiavi di Napoli, “il più grande d’Italia cioè del mondo” (p. 23), viene acquistato proprio da Virgilio, che fa la spola tra la sua villa di Pozzuoli e la capitale, già famoso per avere scritto le Georgiche, e ne diventa presto segretario ed amico, a lui eternamente grato per averlo iniziato alla lettura e, con essa, a qualcos’altro: “mi abituai a guardare il mondo con cento occhi, anziché con i miei due soli, e a sentire nella mia testa cento pensieri diversi anziché il mio solo pensiero. Gli uomini, senza la lettura, non conoscono che una piccolissima parte di ciò che potrebbero conoscere. Credono di essere felici perché fottono, si riempiono le pance di cibo e di vino (…) ma la lettura gli darebbe cento mille vite, e una sapienza e un dominio sulle cose del mondo che appartengono solamente agli dei ” (p. 31). Si noti fin d’ora che per bocca del suo personaggio Vassalli fa l’elogio della scrittura, senza la quale non si darebbe lettura ...

2. Con la battaglia di Azio del 31 Ottaviano batte definitivamente il rivale Marco Antonio mettendo così fine a sessant’anni di guerre civili (vedi p. 33-35) e inaugurando il periodo di massima potenza di Roma (“una nuova stagione: così ricca di energie, così rigogliosa, così splendida” p. 46) (ma l’apice della potenza segna di per sè l’inizio del declino …). “Fu allora che la poesia (…) diventò un affare di Stato” (p. 50): Ottaviano Augusto, “il principe”, presto solo “Augusto”, “si era persuaso che il dominio di Roma sul mondo, e il suo dominio personale, non potevano basarsi soltanto sulla superiorità delle armi. Bisognava che Roma si presentasse ai suoi sudditi con un’immagine di grandezza, oltre che di forza; e che le sue origini, e le origini del suo principe, fossero racchiuse in un mito” (p. 52). Ora, secondo l’etrusco Mecenate, “ tutto ciò che era sorto, in un lontano passato, sulle rive del Tevere, era sorto per opera dei Rasna, cioè degli Etruschi” (p. 53) e all’obiezione di Virgilio, incredulo che dagli Etruschi possa essere derivata la grande civiltà romana non avendo essi lasciato nulla di scritto, Mecenate risponde: “Che ti importa se non abbiamo avuto poeti? Avremo te: e tu sarai il nostro cantore, come Omero lo fu per i popoli dell’antica Grecia ...” (p.53).

3. Mecenate e Virgilio partono perciò con Timodemo e qualche altro compagno di viaggio alla volta del paese dei Rasna: “soltanto lassù (…) Virgilio avrebbe potuto scoprire le vere origini di Roma” (p. 60), e il racconto del viaggio verso l’alta Toscana, lungo la via Cassia fin dove possibile, è l’occasione per raccontare realisticamente un’antica Roma non per caso molto simile al mondo di oggi (per es. p. 97). A Timodemo, che si stupisce dei variegati tratti somatici e costumi che vede, Virgilio risponde che “l’Italia, ormai, era diventata un miscuglio di popoli (…) si potevano incontrare, mescolati alle popolazioni locali, i Galli e i Germani dalla pelle rosea e dai capelli del colore della stoppa, gli Iberici dai capelli neri come la pece e i Siriani dalle lunghe barbe e dagli sguardi obliqui ...” (p. 71). E ancora: “incontrammo altri villaggi abitati dai veterani delle guerre civili (…) originari di tutte le province di Roma, anche di quelle africane e asiatiche. Velthune, il dio della vita e delle metamorfosi (“Lui è la forza che fa nascere gli animali e le piante, e che fa avvicendare le stagioni … Insomma è la vita!”), avrebbe avuto il suo da fare, nei secoli futuri, per trasformare tutta quella gente in Etruschi!” (p. 81).

4. I nostri viaggiatori arrivano infine a Sacni (Santuario), il cuore del paese dei Rasna, non lontano da Siena, che potrei localizzare nella regione di Larderello, in cui il cielo è costantemente velato dai vapori delle terme, dove “erano stati ricostruiti i templi di Velthune e delle altre principali divinità etrusche, e dov’erano custoditi gli antichi Libri del Culto” (p. 98). Virgilio, Timodemo e Mecenate chiedono di essere ricevuti appunto dal sommo sacerdote di Velthune (“Lui solo avrebbe potuto rivelarci i segreti della religione etrusca; e avrebbe anche potuto dirci qualcosa di nuovo e di importante sull’origine di Roma ...” p. 101), ma “i segni in cielo” sono tutti contrari per ora alla loro visita. Nell’attesa di essere infine ricevuti, i nostri visitano i tre templi principali di questo luogo sacro: il tempio di Velthune, dio della vita e delle trasformazioni, il tempio di Northia, personificazione del tempo (ossia della durata), dove, in una parete, sono conficcati tanti chiodi quanti sono gli anni di vita della civiltà etrusca (e solo un angolino è ormai vuoto), e il tempio di Mantus, dio-dea della morte e dell’Oltretomba. In quest’ultimo tempio “sono conservate le storie dei Rasna” (p. 108). “Una mattina, accadde finalmente qualcosa di nuovo (…) ci veniva data la possibilità di visitare l’interno del tempio di Mantus e di scendere nei suoi sotterranei (p. 121): “Scenderete nel pozzo dei misteri e viaggerete nel tempo (…) state per morire (...), ma la vostra morte non sarà una vera morte (…) Se anche doveste rimanere mille anni laggiù dove andrete, alla fine vi ritroverete qui (…) e sarà l’alba di domani mattina” (p. 122-126), viene spiegato loro. Richiesti di scegliere se viaggiare nel futuro o nel passato, i nostri scelgono il passato: “Siamo qui per conoscere le origini di Roma”, risponde infatti Mecenate. I tre viaggiatori si ritrovano perciò sprofondati ognuno per suo conto nella notte della storia.

5. Comincia qua la parte del romanzo in cui, presumibilmente nella mente di Timodemo (p. 145: “Chiudo gli occhi e sento le voci che mi attraversano. Vedo immagini ...”), riecheggiano le voci - voci di conquistatori e voci di vinti - di uomini di quella terra che sarà poi l’Etruria. Le voci e le epoche si susseguono a partire da quando i Lidi, scampati all’assedio di Troia, approdarono sulla sponda del Tirreno e si insediarono, con l’inganno e la violenza, nel territorio abitato dai Sabini, uccidendo gli uomini e i bambini e impadronendosi delle donne, allo scopo di moltiplicarsi e rinsanguare il loro popolo. Sono.

Ecco la prima voce: “Cammino verso oriente con i miei quattro fratelli (…) e ammazzo tutti i maiali maschi che incontro sulla mia strada. Non so dire quanti ne ho scannati finora, perché io riesco a contare soltanto sulle dita della mia mano (…) I maiali assomigliano nell’aspetto agli uomini, ma non sanno esprimersi come gli uomini e non sanno nemmeno vestirsi. Non conoscono le scarpe (…) Li abbiamo sgozzati mentre lavoravano nei campi, o mentre tagliavano la legna, o mentre conducevano per strada un asino carico di fascine. (…) Un giorno, quando tutti i maiali a due zampe saranno stati sgozzati, il nostro capo dei capi, il grande Eneas, darà a ognuno di noi una parte di questa terra e un certo numero di femmine, perché le faccia lavorare di giorno e le ingravidi di notte” (p. 130-131). La voce successiva, quella di Sethu, “il più giovane dei Lidi scampati alla guerra e alla distruzione della città di Troia” (p. 132), esprime invece lo smarrimento di chi vede la disumanità del comportamento dei suoi compagni e ci dice con ciò che il seme dell’umanità è sempre vivo ...

Alcune voci, poi, preannunciano qualcosa che è ancora violenza ma anche inizio di qualcos’altro. In particolare, un Lidio dice : “Per comunicare con le mie donne, e per essere ubbidito e servito, io ho dovuto imparare molte delle loro parole; e, se non c’è nessuno che mi ascolta, le uso (…) Adulissa (…) non riesce a impedirsi di provare piacere; e questo fa sì che , oltre a odiare me, odia anche se stessa. (Ma il suo istinto, fortunatamente, continua a essere più forte del suo odio) (…) i figli sono la cosa più importante che abbiamo, dopo le tragedie che ci hanno colpito (a noi in Lidia, e a loro in questa terra che chiamano Lazio). È soltanto grazie ai figli, nostri e loro, che i nostri due popoli potranno continuare a esistere” Inoltre: “Le altre mie donne sono più tranquille. Yahrissa è grassa e rosea come una giovane scrofa, e non ha pensieri di nessun genere: nemmeno pensieri di vendetta. (…) Truysia, infine, (…) del passato, non ha certamente molto da rimpiangere!” (p. 141-143).

Un’esigenza si fa strada in questo nuovo popolo nato dai Lidi fuggiti da Troia e dalle donne dei Sabini da loro rese schiave: cancellare la violenza delle origini: “Nessuna traccia di quella violenza dovrà rimanere tra di noi. Nessun racconto di cantastorie, nessun poema (…) nessun affresco e nessuna scultura. Basterà dire semplicemente: un giorno, in questa terra ricca di messi e di ogni genere di metalli, è nato un popolo che prima non c’era. Il popolo dei Rasenna (Rasna) ...” (p. 145). E infatti nessuno dei discendenti di quei massacratori saprà la verità: “Mio nonno parlava in un modo strano. Tutti gli uomini della sua età parlavano e si comportavano in un modo strano. Dicevano di essere venuti da un paese di là dal mare e raccontavano di avere combattuto una guerra lunga e crudele contro i Greci; una guerra che, alla fine, i Greci avevano vinto con l’inganno (…) Dopo un lungo viaggio si erano fermati in Italia, nel Lazio, perché qui c’era il dio di cui, allora, avevano bisogno. Il dio delle trasformazioni Velthune” (p. 145) In quest’opera di nascondimento della verità storica da parte dei Lidi un ruolo importante lo svolge il poema di “un famoso cantore: il grande Aveles (…) cieco dalla nascita”, che “raccontò la fuga dei Lidi dopo la caduta di Troia (…), le loro guerre eroiche contro i selvaggi del Lazio (…) ma soprattutto celebrò il senno e la possanza di Eneas” (p. 146).

IL TEMPO PASSA, LE STORIE SI RIPETONO, I VINCITORI DI UN TEMPO SONO A LORO VOLTA VINTI. La voce di un vecchio racconta infatti, guardando la gente che fugge: “i discendenti di tutti gli assassini e di tutti i ladri del popolo Etrusco, cioè i Romani, avevano deciso di annientarci e (...) stavano distruggendo, una dopo l’altra, le nostre Dodici Città. (...) sono rimasto solo con mia moglie Culni. Ci teniamo la mano nella mano e guardiamo fuori della finestra, sulla strada dove continuano a passare uomini e carri, diretti verso chissà dove. ”(…) Sbrigatevi a scappare, perché stanno arrivando i Romani! Ma io e Culni abbiamo deciso di rimanere qui, davanti a questa finestra, e di aspettare i nostri assassini per guardarli in faccia” (p. 151-152). Un altro dice: “Nelle nostre città, ormai, comandano gli stranieri (…) Per ogni nostra necessità dobbiamo ricorrere ai funzionari dell’amministrazione civile di Roma” (p. 153) Infine: “A Perugia, nella ricorrenza delle idi di marzo, più di trecento uomini della nobiltà locale (…) sono stati trascinati come animali sugli altari di pietra e abbattuti a colpi di scure (…) Si vedevano all’orizzonte le nuvole di polvere dell’esercito di Ottaviano che si stava spostando; e le grandi masse di fumo degli incendi (…) (p. 154). Ecco, le voci appartengono ormai all’“oggi”, il tempo di Ottaviano, quello della storia di cui sono personaggi Virgilio, Timodemo e Mecenate.

6. “Riaprii gli occhi” - racconta Timodemo - “Ognuno di noi aveva avuto la possibilità di conoscere, per suo conto, l’intera storia dei Rasna. Eravamo nati e morti decine di volte” (p. 157). A questo punto i nostri tre viaggiatori ricevono infine l’invito a recarsi dal sommo sacerdote di Velthune, “un omino grinzoso e deforme” (p. 164) che più volte hanno intravisto lungo il percorso, il quale dice loro: “l’epoca dei Rasna finisce oggi” (p. 166). A lui Virgilio chiede: “Perchè non avete mai scritto la vostra storia, e nemmeno le vostre riflessioni sulla vita e sul mondo? (…) Perché la scrittura vi ha sempre fatto orrore?” (p. 166). La risposta è quanto mai sibillina e non spiega “veramente” : “ La scrittura ci fa orrore come ci fa orrore la morte. La parola scritta è un segnale di morte” (p. 166). Quanto alla religione dei Rasna, l’omino spiega che essa “era antica di quasi dieci secoli e che era nata nel Lazio, tra i Lidi della terza generazione dopo lo sbarco di Eneas (p. 168): all’inizio “l’universo era il regno del dio del nulla Mantus e della “sua fedele ombra Mania” (p. 168), poi il dio della vita Velthune e il dio-dea del tempo Northia riempirono l’universo di cose e di vita, ma Mantus inventò un nome per ogni cosa “e l’infelicità penetrò” in esse (p. 169), ossia un principio di morte. Mania diede forma scritta a ogni nome “e il mondo si riempì di parole scritte, cioè di involucri vuoti e affamati di vita. (…) La seconda epoca del mondo (…) è stata l’epoca di Mania, ed è durata circa mille anni come la precedente. La terza epoca è quella dei Rasna (…) che è finita stasera (…) L’età della ragione e della gioia di vivere. Nessun popolo, in futuro, riuscirà a tenere a bada l’infelicità e perfino la morte come abbiamo fatto noi! ” (p. 171) (“Ma le epoche del mondo sono cinque” (p. 170), ha detto il sommo sacerdote: quali siano la quarta e la quinta Vassalli non lo dice). “La scrittura uccide” (p.174), insiste il sommo sacerdote, che scrive il proprio nome, quello della moglie e quello della moglie-figlia, che infatti muoiono poco dopo.

7. Tornati a Sacni, i tre viaggiatori partecipano al banchetto funebre in onore di Velia, la moglie-figlia del sommo sacerdote. Timodemo: “Quella notte a Sacni, io ho avuto l’impressione di tornare indietro nel tempo, fino a un’epoca che conoscevo, perché c’ero vissuto, in cui i funerali dei morti erano un’esplosione di vita (Cioè, in pratica, di violenza e di sesso)” (p. 184) e la musica che accompagna gli ultimi festeggiamenti “era il canto dell’Etruria libera e felice”. Virgilio, Timodemo e Mecenate si rimettono poi in viaggio per Roma e poi Napoli, carichi della vera storia delle origini di Roma. Racconta Timodemo: “Confrontavamo i nostri ricordi. Anche Virgilio, ormi, si era convinto che Roma era stata una città etrusca, e che la sua storia era un rivolo della storia dei Rasna; ma, a differenza di Mecenate, lui credeva che quella discendenza andasse tenuta nascosta. Il vero Eneas era impresentabile. La realtà, mi diceva il mio padrone, è sempre impresentabile; e l’arte esiste anche per questo scopo specifico, di renderla migliore e degna di essere raccontata (…) La poesia (…) deve mostrarci la parte migliore dei nostri sentimenti (…) Io ascoltavo e non ero convinto. Omero – gli facevo osservare – doveva avere, sulla poesia, delle idee un po’ diverse dalle tue, perché se avesse voluto mostrarci gli aspetti migliori della natura umana, ci avrebbe dato un Achille più pietoso, e un Ulisse più leale e più giusto … E nemmeno Eschilo e nemmeno Sofocle, a mio avviso, si sono posti i problemi che ti poni tu! È vero. - ammetteva Virgilio - (…) forse si illudevano che gli uomini avrebbero finito per correggersi da soli, riflettendo sui loro sbagli (…) ma, purtroppo, le cose sono andate in un altro modo. La ferocia e la follia, invece di diminuire con la civiltà, sono cresciute con lei; e la nostra epoca, tanto più colta e progredita delle epoche precedenti, ha dovuto assistere, in Italia, agli orrori delle guerre civili!” (p. 201-202). Intanto il potere si è fatto assoluto e sospettoso, la buona stella di Mecenate è impallidita e Virgilio si sottrae a fatica all’ingiunzione di Ottaviano Augusto di consegnargli il poema delle origini di Roma che sta scrivendo seguendo, pur fra tanti dubbi, il modello idealizzante dei cantastorie che del “massacratore di bambini e di donne” Eneas (p. 211) hanno fatto l’eroe da cui gli antichi Romani discendono direttamente, ignorando completamente il popolo etrusco, nonostante il loro determinante contributo di sapienza artistica e tecnologica. Sentendosi minacciati di morte dall’imperatore, Virgilio e Timodemo acquistano “una fattoria di quattrocento schiavi e di seimila iugeri nel paese dei Daunii” (p. 213), in Apulia, cioè nelle Puglie, senonchè “Virgilio non ha mai messo piede nella sua nuova proprietà; e io, che pensavo di averla comperata per lui, ci sono venuto ad abitare sotto un falso nome per sfuggire all’ira del principe, e ci vivo facendo il contadino, da quasi dieci anni (…) e anche questo è un segno della volontà di Velthune, il dio della vita e delle metamorfosi che ci ha fatti incontrare, e che è l’autore della nostra storia e di tutte le storie del mondo” (p. 214)

8. Come tutti sanno, alla fine l’Eneide diventa effettivamente il poema nazionale di Roma imperiale, ma ciò accade perché i pretoriani di Ottaviano Augusto si impadroniscono del manoscritto del falso mito di Enea, costringendo Timodemo alla fuga per sottrarsi alla morte, mentre Virgilio si ammala e muore amareggiato: “Sarei diventato un grandissimo poeta, un nuovo Omero, se non mi fossi illuso che l’arte può servire a migliorare gli uomini e se non avessi creduto di cambiare il mondo con la poesia” (p. 229).

9. Il racconto di Timodemo volge alla fine: “Ma Giove, ormai, ha distolto il suo sguardo da quello che succede a Roma; e la Fortuna, che è la più scellerata delle dee, fa il suo mestiere, favorendo gli spergiuri e ogni genere di delinquenti” (p. 233). E: “Non è trascorso nemmeno un quarto di secolo, mi dico, da quando Mecenate era il padrone di Roma e uno dei padroni del mondo; e ora, Roma e il mondo si sono dimenticati di lui (…) Mi domando cosa sia la memoria di un uomo, e non so rispondere (…) Che memoria può avere, il tempo, degl uomini che lo fanno esistere, senza la scrittura? La scrittura: è lei la protagonista della storia che sto raccontando. Il popolo dei Rasna (…) aveva scoperto, in alternativa alla scrittura, un modo di rivivere il passato (…) ma quel modo non aggiunge e non toglie niente ai singoli uomini, e non modifica le loro storie. La scrittura, invece, può durare (e di solito effettivamente dura) ben più di chi se ne serve” (p. 239-240).

10. Ed ecco la fine del romanzo: nella sua “Solaria” Timodemo è riuscito a costruirsi una piccola grande felicità (vedi p. 241-245) e solo una volta il passato gli ritorna. In sogno, l’omino grinzoso con la gobba, il sommo sacerdote di Sacni, gli dice: “Benvenuto nell’epoca della scrittura! (…) Il tempo degli uomini, da quando Velthune e Northia hanno smesso di occuparsi di loro, si è ridotto a essere una rincorsa tra presente e futuro, sempre più affannosa e sempre più folle (…) Voglio mostrarti il mondo dominato da Mantus e da Mania: il mondo scritto, con gli uomini che si dibattono tra i fili delle loro stesse parole come le mosche nella tela del ragno ...”.

11. GIUDIZIO. Ho apprezzato le parti della narrazione che attualizzano la storia di Roma e ho trovato abbastanza affascinanti le parti in cui Vassalli cerca di far rivivere la civiltà etrusca. Non particolarmente interessante è invece il modo in cui viene affrontato il tema della funzione della letteratura: celebrativa? educativa? garanzia di Fama per chi lo scrive e per chi vi viene celebrato? Preferisco di gran lunga per esempio “Lo scherzo” di Milan Kundera. Quanto al tema della scrittura mortifera per gli Etruschi, è solo un pretesto narrativo, giacché Vassalli, ovviamente, fa l’elogio della lettura e della scrittura. Anche le parti in cui si parla del ruolo del caso nella storia (“il caso non esiste (…) ogni avvenimento si colloca in una catena infinita di eventi” p. 113-114) mi sembrano più a effetto che pregne di sostanza. Quello che invece ho apprezzato e condivido sul piano del contenuto, e che secondo me è l’idea che Vassalli sviluppa forse in tutta la sua narrativa (sto leggendo qualcos’altro di lui), è che la storia è fatta di UN INFINITO NUMERO di variazioni dello stesso processo: violenza e pacificazione attraverso la rimozione della violenza iniziale… In questo senso trovo che sia un romanzo filosofico.

12. Come rimandi ad altre opere, mi sembra di poter segnalare “Candido” di Voltaire (il viaggio, il caso, la formula “Bisogna coltivare il proprio giardino”) e il monumentale “Giuseppe e i suoi fratelli” di Thomas Mann (per la ricostituzione di epoche remote)

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Candido; Giuseppe e i suoi frateli
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