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In requiem di Raffaello
Nell’aprile 1520, il venerdì santo, dopo settimane di tormentosa agonia, si spegneva in Roma Raffaello Sanzio da Urbino (il Maestro con la M maiuscola), colui che da allora, e forse per sempre, sarà considerato il più eccelso pittore che abbia avuto mai l’Italia.
Il suo amico e compagno di bagordi Pietro Aretino, convinto anche dall’amante del pittore (Margherita, la Fornarina), deciderà di indagare sulle ragioni di quella strana morte a soli 37 anni.
Ufficialmente verrà attribuita alla vita sregolata che conduceva Raffaello. Troppe cose, però, non quadrano: Raffaello ha cominciato a star male dopo una cena a casa del banchiere Chigi che, pure lui, è morto tra atroci dolori, alcuni giorni dopo. A quella festa aveva partecipato il cardinal Bibbiena il quale (coincidenza assai sospetta) era stato male per settimane con gli stessi dolori denunciati dagli altri due. Solo le donne presenti, tutte astemie, non avevano subito alcun postumo. Per di più, alla cena, doveva partecipare pure Pietro, ma il coppiere del banchiere lo aveva dissuaso dal presentarsi. Che il vino fosse avvelenato? Però, chi poteva voler morto sia Raffaello, che il Chigi e pure il Bibbiena, il quale morrà, sempre in circostanze misteriose, alcuni mesi dopo?
Noi lettori partecipiamo delle traversie di Pietro (divenuto investigatore suo malgrado) in una Roma piena di intrighi che, terminata l’età dell’oro dei pontificati di Giulio II e Leone X, si sta lentamente chiudendo su sé stessa. Tra le pressioni del luteranesimo a nord, una controriforma che cancellerà la gioia di vivere del secolo passato, le lotte tra gli stati italiani e le invasioni straniere, la città rinuncerà a quella stupenda stagione artistica che ne aveva fatto il centro del mondo. La lingua affilatissima del poeta ce ne fa partecipi e non lesina commenti salaci e pubbliche fustigazioni (le Pasquinate) ai potenti di turno. Nel mentre prosegue con grande difficoltà le sue indagini ponendo anche a rischio la propria vita.
La conclusione a cui giungerà sarà stupefacente e, nel contempo, assai amara.
Francesco Fioretti aveva già dedicato un romanzo storico a Leonardo nel 5° centenario dalla sua scomparsa. Ora, approfittando del cinquecentesimo di Raffaello, omaggia il grande urbinate affrontando uno dei più spinosi enigmi del Rinascimento: fu davvero assassinato e, se sì, quali furono i moventi e i mandanti?
Da un romanzo storico, ovviamente, non possiamo pretendere che le conclusioni siano esatte o anche solo verisimili. Il fluire della narrazione, comunque, è interessante e appassiona. La descrizione della Roma della prima metà del XVI secolo è accurata e ben fatta. Il personaggio di Pietro Aretino, vero protagonista della storia, spirito malandrino e autore salace, è affascinante. La storia ci fornisce anche l’occasione per ripassare l’enorme produzione artistica di Raffaello (che in poco più di dieci anni inondò Roma di capolavori ineguagliati), ma pure quella di altri grandi artisti, solitamente offuscati dall’ombra del primo, ma che, se solo fossero nati in altra epoca, sarebbero stati considerati maestri eccelsi.
Come nel libro che lo ha preceduto, in questo romanzo l’A. si è soprattutto preoccupato di fornire dettagliate informazioni storiche e artistiche; così soffre un poco la drammatizzazione delle vicende dei protagonisti. Ciò va a detrimento della piacevolezza e, talvolta, la lettura si fa un po’ faticosa e non troppo invitante. Tuttavia il fascino del Rinascimento italiano, e dei grandi che lo hanno animato, fa superare questo scoglio.
Lo stile, pur se talvolta eccede nel didascalico ed erudito, è, comunque, fluido e non dispiace essere calati in questa lezione di storia dell’arte e di letteratura cinquecentesca, con la scusante di essere fatti partecipi di una indagine poliziesca ricca di intrighi e misteri.
In definitiva si tratta di un buon libro che diverte nel mentre fa cultura.