Dettagli Recensione
Bello, ma non brilla
Raccontare la Sicilia dell'800 dopo Giovanni Verga, Federico De Roberto, Tomasi di Lampedusa, è un'impresa azzardata che richiede una certa dose di coraggio o forse di inconsapevolezza. Il rischio di scimmiottare livelli irraggiungibili è altissimo. Ciò nonostante, del tutto inaspettatamente, il risultato ottenuto da Stefania Auci non è malaccio.
Le ragioni del grande successo dei "Leoni di Sicilia", ancora tra i libri più venduti in Italia a quasi due anni dalla pubblicazione, non sono difficili da indovinare. È una saga familiare, e si sa che le storie di famiglia piacciono sempre. È un romanzo storico, e si sa che il passato ha sempre il suo fascino, ma non è pesante: la storia, quella con la S maiuscola, resta sullo sfondo e in primo piano campeggiano i destini privati dei personaggi. In questi tempi di crisi, poi, leggere di una famiglia italiana, addirittura meridionale, che fonda un impero commerciale capace di affermarsi in Europa ha un certo valore consolatorio. I bei tempi che furono, chissà, possono sempre tornare. Visto che quando gli italiani ci si mettono sono migliori di tutti gli altri?
Anche lo stile certamente aiuta, semplicissimo, scorrevole, quasi elementare, adatto anche alle capacità di lettura di chi apre al massimo due libri all'anno, uno a Natale e uno sotto l'ombrellone.
Insomma, i motivi per cui "I leoni di Sicilia" è stato ed è ancora un enorme successo di pubblico e critica giunto alla ristampa nel giro di un anno sono evidenti, ma bastano a qualificarlo come un buon romanzo? Perché le due cose non necessariamente sono collegate.
Qualche perplessità c'è, a partire proprio dallo stile: leggero e scorrevole, sì, ma forse anche troppo, al punto da essere quasi telegrafico. Molti passaggi risultano frettolosi, abbozzati, come se l'autrice avesse timore di spendere troppe parole e annoiare il lettore, e talvolta il nesso tra due momenti o due episodi che si susseguono non è di comprensione immediata. La narrazione sembra impostata per scene, con tagli, stacchi e prospettive che evocano moltissimo gli episodi di una serie tv, come se il romanzo fosse stato scritto pensando a una trasposizione televisiva (che infatti è stata decisa già da tempo). Lo stile telegrafico-televisivo è abbastanza diffuso nella narrativa contemporanea, ma la ricchezza del racconto certamente ne risente. Un romanzo e una serie tv sono due forme d'arte ben diverse: perché privare una delle due della sua specificità per omologarla all'altra? Per rendere la lettura più semplice e accattivante, se non addirittura elementare?
Le descrizioni sono del tutto assenti (una grossa pecca in un romanzo storico, che dovrebbe innanzitutto saper ricreare l'atmosfera di un tempo lontano). Spesso ho avuto la sensazione che i personaggi si muovessero su un fondale bianco, senza un contorno vivido a fare da supporto. La Sicilia dell'800 potrebbe essere uno sfondo vivissimo, ma se non fosse stato per altre letture o film ambientati in quei luoghi e in quel periodo avrei potuto visualizzare ben poco intorno ai protagonisti. Lo stesso problema torna con i personaggi secondari, che siano amici o nemici dei Florio, privi di una vera caratterizzazione (addirittura tendevo spesso a confonderli o a dimenticarne l'esistenza): Ingham e Giachery, pur essendo molto presenti, sono poco più che nomi. In particolar modo la mancanza di personaggi negativi forti, che abbiano la loro storia, le loro caratteristiche e prendano vita dalla carta, si avverte con forza: ai Florio, di fatto, non esiste un contrappeso se non una lunga sfilata di nobili (che li disprezzano in quanto arricchiti) e commercianti (che li odiano perché invidiosi della ricchezza e del potere che hanno raggiunto), tutti ugualmente oscuri e quasi intercambiabili. Per giunta, a volte i personaggi secondari sono messi bruscamente da parte e scompaiono nel nulla, come Vittoria.
Le figure principali, invece, hanno una buona caratterizzazione e, pur non essendo particolarmente profonde, hanno qualcosa che resta impressa nella mente, come la dolce tenacia di Giulia o la ferrea determinazione di Vincenzo o l'amore paziente di Ignazio senior. I più riusciti, i più complessi e sfumati sono senz'altro Vincenzo e Giulia: su di loro si concentra la maggior parte del racconto e dispiace separarsene, alla fine.
Proprio nella rappresentazione dei Florio sta forse il maggior pregio di questo romanzo, aver scampato il rischio di farne degli eroi senza macchia, improbabili santini con cui il lettore è chiamato sempre e comunque a simpatizzare. Stare dalla loro parte è facile quando si tratta di lanciarsi in qualche azzardata innovazione che apre al futuro, inaugurando una nuova era dei commerci, o lottare contro aristocratici spocchiosi e mercanti invidiosi per farsi strada. In tutti gli altri casi non è affatto scontato. Da questo punto di vista, il personaggio migliore è proprio Vincenzo, con i suoi comportamenti (soprattutto verso Giulia e le figlie) spesso biasimevoli, ma realistici, adeguati a un uomo di quel tempo, di quella classe sociale, con quelle ambizioni e quella personalità.
Il risultato complessivo è un romanzo di buon livello, piacevole e di facile lettura, che per certi versi poteva essere scritto meglio, ma fa comunque bene il suo lavoro: intrattenere e assicurare mezz'ora di gradevole fuga dalla realtà. E per quanto riguarda il sequel, sì, la curiosità di scoprire come continueranno le avventure dei Florio c'è.