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Anin, andiamo
Guerra è uomo. I soldati al fronte nel primo conflitto mondiale. Giovanissimi ragazzi con un copricapo di feltro piumato in testa e un fucile tra le braccia, che scivolano tra le trincee, nel tentativo di difendere un minuscolo lembo di montagna.
Ma guerra è anche donna. Le portatrici carniche. Anziane, madri, ragazze poco più che bambine che hanno risposto a una chiamata di aiuto, scalando ogni giorno i loro monti per portare cibo, medicine, munizioni, lettere a quei soldati, nel tentativo di tenerli in vita.
"Anin, senò chei biadaz ai murin encje di fan" (Andiamo, altrimenti quei poveretti muoiono anche di fame). Maria Plozner Mentil (18884-1916), Medaglia d'Oro al Valor Militare
Nel paese, ai piedi di quelle vette in cui il silenzio ha dovuto cedere il posto al fragore delle bombe e il profumo del muschio all'afrore dei corpi infranti, sono rimaste solo loro, le donne, a occuparsi dei campi, a curare chi è restato, a lottare quotidianamente contro la fame e la sopravvivenza. Hanno piedi minuti, avvolti in scarpine di velluto, e pelle dura, ispessita dalla fatica. Ma nonostante tutto, non si tirano indietro di fronte all'appello dell'esercito italiano, rendendosi protagoniste di un gesto che, per coraggio e generosità, merita qualunque tipo di medaglia. In spalla le pesantissime gerle riempite fino all'orlo e ai piedi i leggeri "scarpetz", si arrampicano su quel gigante di roccia che può tradirle a ogni passo, aggrappandosi con tenacia alle pareti come un fiore alpino, per portare un po' di sollievo al fronte.
Con questo romanzo, Ilaria Tuti riporta alla memoria collettiva un indimenticabile pezzo della nostra storia, purtroppo poco noto. E lo fa nell'unico modo che ha la letteratura per rendere davvero omaggio alla vita: rievocandone tutte le emozioni, con sensibilità e immedesimazione. I fatti sono dunque rispettati, ma riproposti all'interno di una storia, quella della giovane portatrice Agata, che attraverso la sua voce in prima persona ci accompagna lungo sentieri di pietra e sentimenti. Con i suoi occhi osserviamo la paura negli sguardi bui dei soldati. Con le sue orecchie ascoltiamo i pianti e i lamenti. Con il suo cuore avvertiamo il coraggio, l'abnegazione, la tenacia. E capiamo anche cosa abbia significato, per ciascuna portatrice, quest'esperienza. Essere guardate per la prima volta con rispetto dai militari. Scoprire di essere capaci di qualcosa di cui non si sarebbero mai immaginate. Ritrovarsi, in un luogo ormai abitato solo dalla signora con la falce, a vestire i panni di signore della speranza, di un ultimo flebile brandello di speranza.
"Amo le parole, ma l'istinto è di custodirle. Ho imparato a maneggiare la loro arte, ma dentro di me è ancora salda la convinzione che alcuni, pochissimi, sentimenti non abbiano bisogno di suoni e non richiedano dialettica. Si espandono nei gesti, cantano nei sensi".
Il merito di questo romanzo è di aver saputo trovare le parole per raccontare qualcosa di così grande e complesso da sfuggire, come dice Agata, alle regole dell'alfabeto, da aver bisogno della vita. Affrontare queste pagine è davvero come incamminarsi su quei rocciosi pendii, lasciando che il vento ci accarezzi il viso, la durezza ci spezzi il fiato, le emozioni ci riempiano il cuore.
E allora anin, andiamo.
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Grazie come sempre per l’attenzione, Laura.
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