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La legge del niente
È un legame d’amore, forte e indissolubile, quello che unisce Carlo Levi alla terra lucana dove trascorse il periodo di confino fra il 1935 e il 1936. Lo testimonia il fatto che egli chiese di essere sepolto proprio lì, a Gagliano, paese nero e sventurato, di terre malariche e volti rassegnati, ignorato dallo Stato, dalla civiltà, dalla religione.
“In questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale, ma è un dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose, Cristo non è disceso. Cristo si è fermato a Eboli.”
Ritrovarsi catapultato in Basilicata significa per Levi scoprire un mondo sconosciuto, rurale e primitivo, che segue ritmi diversi e obbedisce a leggi incomprensibili a un giovane intellettuale torinese. La ragione e la scienza sembrano dissolversi qui, sostituiti da riti magici, incantesimi e superstizioni. Persino l’antifascismo sembra sbiadire, lasciando il posto a problemi antichi e miserie rifiutate persino dalla storia. Potrebbe chiudere gli occhi, ignorare come tanti altri prima di lui quell’angolo di Italia che nulla chiede e nulla spera, oppure trincerarsi dietro uno sguardo di sprezzante o pietosa superiorità. Invece Levi sceglie la strada dell’arte pittorica, che gli è così cara, e comincia a osservare cose e persone, con rispetto e devozione, e a rappresentarle. Prima, nella mente e sulle tele. Poi, in questo romanzo, a cui, a quasi dieci anni di distanza, affida il racconto della propria esperienza autobiografica, fondendo memoria, riflessioni personali, osservazioni socio-antropologiche e cuore. Perché nel frattempo quei contadini sono diventati parte di lui, dei suoi ricordi e del suo percorso di maturazione, e questa fratellanza regala alle pagine una poetica dolcezza capace di lenire anche le note più dolorose.
E il dolore non manca, a Gagliano. La sofferenza della fame. L’ostilità di una natura infruttuosa e malata. La desolazione dell’abbandono da parte dello Stato, straniero e malefico, che impone, pretende, vessa. Impone colture che impoveriscono la terra, tasse sproporzionate, guerre incomprensibili, e lascia sempre i contadini soli, ignoranti e sottomessi. Tutto all’insegna di una civiltà del progresso e del movimento, così abissalmente distante dalla loro realtà in cui il tempo scorre lento e immutato da secoli. L’unica risposta possibile allora è la rassegnazione, amara e senza speranza.
“Io pensavo a quante volte, ogni giorno, usavo sentire questa continua parola, in tutti i discorsi dei contadini. Ninte.
Che cosa hai mangiato? Niente. Che cosa speri? Niente. Che cosa si può fare? Niente.”
Sta però proprio nella capacità di sopportare il dolore con forza interiore, pazienza e dignità, restando ancorati agli antichi valori, l’insegnamento che questa società chiusa e arcaica lascia a Carlo Levi, e a tutti noi. Mentre la piccola borghesia paesana, degenerata e approfittatrice, mostra tutta la sua vessatoria meschinità, questi poveri contadini dalle pance vuote hanno accolto l’estraneo, gli hanno teso la mano, hanno spartito con lui il proprio tozzo di pane. Una lezione di fratellanza, da ricordare anche oggi.
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Commenti
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Penso che la conoscenza di questo autore meriti di essere ampliata, pur senza l'aspettativa di scovare altri capolavori come questo.
Ricordo di aver letto "Le parole sono pietre" e "Tutto il miele è finito", quest'ultimo sulla Sardegna. Li ho graditi.
Un caro saluto,
Manuela
Grazie per avermi letto.
Ciao,
Manuela
Che dire della descrizione di Matera? Impressionante e indelebile!
Grazie quindi per le preziose indicazioni.
Ciao,
Manuela
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