Dettagli Recensione
Dio e Popolo
Nel 1848, l’anno in cui sembrava che le congiunzioni astrali portassero l’Europa a reinventarsi, almeno politicamente e socialmente, Roma era eterna, capitale della cristianità, meta simbolo per letterati e intellettuali. Ma era anche povera come poche volte nella sua lunga storia. Sporca, abbandonata all’incuria, spietata nelle sue contraddizioni in cui ai palazzi della nobiltà e del clero più altolocato rispondevano le baracche e gli stracci della gente del popolo largamente disoccupato.
Nell’anno che passerà alla Storia come l’anno delle rivoluzioni, mancate, la capitale era retta dal regno di papa Pio IX. Un papa politico, come ce ne sono stati tanti, che provò l’inefficacia, nel lungo periodo, della politica cerchiobottista del piede in due staffe, dando prima corda ai sentimenti liberali che infiammavano anche Roma per poi rimangiarsi tutto, parola e concessioni, fino a fuggire verso Gaeta tra le braccia del re despota Ferdinando II di Napoli.
È in questo clima fervente e confusionario che entra a Roma, assieme ai reduci della Legione pontificia guidata dal generale Durando che aveva combattuto in Veneto, Folco Verardi, di professione panettiere in quel di Ravenna. Uno dei tanti volontari che lasciano bottega, moglie e figli per far la guerra contro gli austriaci e “fare l’Italia”.
Per mezzo degli occhi del semplice e spaesato romagnolo, l’autore ci porta a spasso per le vie della città, tanto nei rioni popolari quanto nei palazzi dove si sta scrivendo la Storia. Tra riunioni carbonare fatte di invettive anticlericali e fiumi di Romanella alle sedute dell’assemblea costituente che, negli ultimi agonizzanti istanti di vita della Repubblica, promulgherà una costituzione audace e progressista dove, tra gli altri, si aboliva la pena di morte e si sanciva la laicità dello stato.
Folco, appena alfabetizzato e cosciente della sua scarsa vena politica, conteso fra l’amore per una garibaldina e quello per l’idea di far parte, per la prima volta nella sua vita, “di un qualcosa di pulito”, arriverà ad identificarsi con quegli ideali di speranza e uguaglianza che permeavano la causa repubblicana fino a sposarli come ragione di esistenza.
1849 è il frutto di un minuzioso lavoro storiografico, particolareggiato e ampiamente documentato. Una cronaca ricca, dove gli aneddoti più conosciuti si incastrano con altri immaginati o ricostruiti dall’autore in assoluta fedeltà con le cronache del tempo.
Questo marcato carattere storiografico ruba un po’ la scena al romanzo in sé, che ha l’unico limite di non riuscire quasi mai ad immergersi nelle vite dei protagonisti, alla lunga tutti un po’ schiacciati in un corpo unico (il popolo delle barricate, le orde di ragazzini seminudi, le schiere di intellettuali, ecc.) che li priva di identità propria. Lo stile abbastanza scolastico di Evangelisti contribuisce a questa sensazione di generale piattezza e forse il suo essere “forestiero” (Evangelisti è bolognese) ha negato alla narrazione quella componente vernacolare e romanesca che avrebbe portato vivacità nella lettura e reso in maniera ancora più efficace il contributo delle masse popolari a questa straordinaria impresa fallita.
Indicazioni utili
Commenti
2 risultati - visualizzati 1 - 2 |
Ordina
|
2 risultati - visualizzati 1 - 2 |