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L'ordine delle cose
Nel giro di poche ore ha pugnalato sua moglie, il ragioniere che lo ha sostituito in ufficio e il dirigente che lo ha licenziato, uccidendoli tutti. La “belva umana” lo chiamano a Palermo, dove in reazione al gesto efferato ci si attende ora la giusta punizione.
Negli anni ‘30, dove si dorme “a porte aperte” (ma più lo si crede di quanto non lo si pratichi realmente), la giusta punizione non può essere che la pena di morte, reintrodotta dal regime fascista dopo quarant’anni di abolizione. E’ quel che tutti si aspettano, tenuto conto che uno degli accoltellati a morte è quel Giuseppe Bruno – avvocato, segretario del sindacato forense, presidente dell’unione provinciale fascista artisti e professionisti, e chi più ne ha più ne metta – che è figura particolarmente rappresentativa nel capoluogo siciliano.
Ed è quanto ricorda anche il procuratore generale al giudice che dovrà occuparsi di quel processo: d’altronde non è prima di tutto il Ministro della giustizia, 'Sua Eccellenza Rocco', ad aver indicato il fondamento giuridico della pena capitale? E non è forse il procuratore generale così prodigo di illustri riferimenti perché sa bene che quel "piccolo giudice" non è per nulla convinto che una tale pena abbia fondamento?
"Un brav’uomo, il procuratore: ma di brav’uomini è la base di ogni piramide d’iniquità."
I principi di civiltà possono essere i più alti, ma con ciò nulla si è detto: il più è che sono applicati da uomini.
Lo spiega – ancora una volta – Leonardo Sciascia in questo romanzo breve, caratterizzato dal suo tipico incedere narrativo e dal consueto acume: di fronte ad un (triplice) fatto di sangue, il problema non è la colpevolezza, l’eventuale infermità di mente o l’esistenza di qualsivoglia attenuante, bensì come lo Stato – in quel momento lo Stato fascista – ritenga di "rendere giustizia". Protagonisti perciò non sono il reo, le vittime, i fatti posti in essere: lo diventano invece il giudice a latere, i giurati, il procuratore generale, l’opinione pubblica, il comune sentire di un’epoca storica, le esigenze politiche e la "filosofia" giuridica che ad esse si piega.
A sentenza resa, l’ultimo capitolo del libro si rivela densissimo (almeno quanto tutti i precedenti insieme), quello nel quale il procuratore generale e il "piccolo giudice" si ritrovano a cose fatte: è allora che si comincia davvero a discutere delle proprie convinzioni in tema di giustizia, del diritto o meno di un giudice a comminare la pena di morte quand’anche prevista dal sistema, del "beneficio" realmente reso alla persona giudicata e "risparmiata" laddove in ogni caso già pende il ricorso per il grado d’appello. E’ l’ultima motivazione opposta dal procuratore generale all’affermazione di qualsiasi alto principio da parte del giudice, mentre entrambi scoprono che ad accomunarli realmente, in un dato momento storico, è solo la paura.
E mentre si riconosce lo Sciascia acuminato di sempre.
"Aveva una brillante carriera da fare, se l’è rovinata rifiutando di condannare uno a morte."
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