Dettagli Recensione
Gertrude è innocente?
Mentre penso a cosa scrivere su questo libro di Malaparte, mi torna in mente il me di qualche anno fa alla presa con il più classico dei temi del liceo, “Getrude: colpevole o innocente?”. Sarà che quel “La sventurata rispose” mi aveva colpito più di quanto non avessi intuito, ma io Gertrude l’avevo prosciolta. E allo stesso tempo, qualche anno dopo, avevo difeso la filosofia di Heidegger all’indomani della pubblicazione dei “Quaderni neri”, esplicito documento del suo sostegno al nazionalsocialismo, perché in fondo, mi ero detto, l’architettura del pensiero, la bellezza del linguaggio, la profondità della riflessione non perdono smalto di fronte alla biografia. Eppure con il tempo anche le posizioni cambiano e così quanto siamo o non siamo disposti a perdonare. E oggi mi chiedo: a cosa serve filosofare, a cosa serve scrivere la bellezza, se questa non ci aiuta a scegliere quanto è giusto, a sentire le vibrazioni di quello che accade. Forse può sembrare un discorso fin quasi moralistico, ma non riesco a farne altrimenti.
Venendo al caso specifico, Malaparte ha il dono non comune di una prosa lussureggiante, evocativa, in cui suoni e colori si mescolano e rincorrono in un labirinto di citazioni coltissime, in cui basta un vento nero e feroce a tenere le redini di un capitolo o basta seguire un personaggio che cammina per le strade misteriose di Napoli per dipingere una città memorabile. Dal generale al particolare, dal particolare al generale, Malaparte scrive come dipingerebbe un pittore fiammingo, ma con più luce, con più strazio, con più passione. D’altronde l’enormità della guerra, l’assurdità della fame, della malattia, l’idea inconcepibile, ma pure così frastornante, dell’uomo che annienta un altro uomo richiedono, per poter essere davvero rese, una scrittura tesissima, spasmodica, sull’orlo della rottura. E il rischio che ne segue è che nei punti di massima tensione, una scrittura già esasperata, debba, per rendere l’akmé, quasi negare se stessa. E in effetti i punti di maggior orrore (la vivisezione, l’esposizione della vergine, la cena cannibalesca) non di rado sfiorano la tenerezza. E Nei suoi punti migliori, mi pare, il libro è circonfuso dalla delicatezza improvvisa che si apre nel caos soverchiante della guerra e della distruzione, dal respiro calmo della natura e dal riposo di una notte che profuma di pietà, ma troppo spesso Malaparte indulge nell’orrore che non ha motivo di essere, si compiace dello stupore di una nuova aberrazione e per farlo mistifica fin oltre il consentito la realtà. Non è un caso che nel teatro classico la violenza non venisse rappresentata sulla scena, perché la violenza è preziosa e pericolosa, può sbilanciare completamente una narrazione; perché anche sulla pagina, quando è gratuita, è già un passo oltre il lecito. Malaparte conosce benissimo la letteratura greca e latina, anzi, la fa conoscere, in modo un po’ inverosimile, a un soldato americano, fino a citare i più lontani lirici, Simonide, Pindaro, Anacreonte, ma forse dei classici dimentica una lezione cardine: l’aura mediocritas, il concetto di limite, il senso dell’equilibrio. Questo non significa che la violenza non debba trovare spazio, ma deve essere finalizzata a qualcosa di valido, come accade ad esempio in “Arancia meccanica” di Kubrik. Qui, invece, mi pare che troppo spesso la personalità dell’autore offuschi la bellezza della scrittura e che forse troppo spesso l’esuberanza non sia adeguata allo scopo. Ci sono almeno un paio di capitoli che potrebbero scomparire, qualche scena che si potrebbe tagliare, ma farei torto alla personalità dello scrittore, che dunque valuto così com’è: ammiccante, compiaciuta, vagamente egocentrica. Non a caso Malaparte, che si inserisce come personaggio del libro, quasi sempre esce vittorioso dalle discussioni, quasi sempre fa una bella figura.
Ecco non vorrei che tutto questo faccia dimenticare quanto di bello il libro riserva, l’idea che tutti, vincitori e vinti, escano ugualmente sconfitti dalla devastazione, l’idea che l’uomo può scendere ogni gradino dell’abiezione per salvarsi, gli affreschi meravigliosi del Vesuvio che erutta, della Napoli vivace e quasi mistica che trapela dall’uscii delle porte; la stessa Napoli in cui si perde e vaga Andreuccio da Perugia, in una celebre novella del Decameron, perché è la città, con le sue strade e i suoi buchi d’ombra, a rappresentare il vero centro della narrazione, col suo percorso di dannazione e salvezza, di cateresi e catarsi. Forse la scena più bella del libro è quando dopo l’eruzione del Vesuvio la terra rinasce e pare che quasi si tratti dell’Eden, di uno spazio vergine, del primo passo dell’uomo su un pianeta intoccato. Eppure proprio perché il libro parla di temi tanto delicati, tutto avrebbe meritato più attenzione, più cura e meno circo, meno protagonismo. Perché non bastano le intenzioni a rendere buone le azioni. Nella vita, come nella letteratura.
Indicazioni utili
Commenti
10 risultati - visualizzati 1 - 10 |
Ordina
|
P.S. Caspita che temi difficili vi davano a scuola! Mica come quelli della mia epoca: "Esponete il concetto di provvidenza nel Manzoni". :(
P.P.S. Per inciso anch'io avrei assolto Gertrude per aver agito in ... stato di necessità! :-)
P.S. Curioso (e significativo) che in due recensioni compaia il Manzoni!
10 risultati - visualizzati 1 - 10 |