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Resistere serve a tutti
Inizio la mia esplorazione dell’universo letterario di Curzio Malaparte da un racconto minore ritrovato e pubblicato da Excelsior 1881, casa editrice purtroppo non più in attività. L’alternante e libresca vita di Malaparte, tanto mutevole nella politica quanto accesa nei toni, lascia spazio a una narrazione che fa della delicatezza e dello sfumato la sua prima virtù. Siamo nell’Italia dei primi giorni del settembre 1943, il re è fuggito, ma le nuove alleanze dell’8 settembre non sono ancora state siglate. Calusia è un soldato bergamasco, confinato in uno sperduto manipolo di uomini in Calabria, solo e senza ordini contro lo sbarco degli inglesi e degli americani che annienteranno il suo caposaldo. Superstite per caso della dolorosa sconfitta, Calusia intraprende un viaggio per l’Italia portando con sé, in una cassa costruita da lui stesso, il corpo del suo Tenente, diretto a Napoli, dalla sua famiglia.
Fin da subito Malaparte sceglie uno sguardo sfumato, impreciso, che sgrani la realtà per renderla forse meno dura, più malinconica: la battaglia che apre il romanzo è un miscuglio di nebbie e bagliori, brevi istantanee di uomini che cadono e dei rumori delle mitragliatrici, ma tutto scolora e si confonde, quasi che il rispetto per la morte e per il dolore impedisse di descrivere il massacro. E su questo stesso tono elegiaco e sospeso, che non di rado si affida a un lirismo terrestre e garbato, si assesta il prosieguo: Malaparte procede per ellissi e studiate omissioni, segue il suo personaggio, senza braccarlo, lo accompagna lungo un viaggio che ha la capacità di descrivere la crudezza come fosse una fiaba. Ne risente forse la struttura, a tratti troppo esile, ma ne guadagna lo stile, che trova nel silenzio e nelle scene per istantanee la sua forma più pura. Così si affastellano scene trasognate e memorabili, come quella in cui Calusia e una giovane orfana rubano i vestiti di due soldati inglesi che, forti dei fucili, avevano fatto gli smargiassi; o ancora il soldato nero che canta din don appeso alla campana di una chiesa. Eppure Malaparte lascia intravedere questioni serissime: la fiumana di esuli che dalle regioni del sud muove verso il nord alla ricerca di qualche possibilità di lavoro, la angherie di chi si approfitta della povera gente per i propri scopi e più di tutto il sacro rispetto per il corpo di un compagno morto, per il dolore della sua famiglia. Non è solo e aneddotico cameratismo, anzi il contrario: è questo ultimo lembo di umanità che, sopravvivendo nell'abnegazione tenera e decisa di Calusia, impedisce alla guerra di abbruttire senza possibilità di perdono anche le ultime relazioni umane. L’Italia ha perso la guerra, ma Calusia non può lasciare che a vincere siano “i ladri”. È nel brutto che accompagna ogni guerra che Malaparte crea una inaspettata storia di luce, graziata, com’è, da una superba e garbata eleganza.
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