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Gioco che sostituisce in modo incruento la guerra
In occasione dello scoppio del conflitto tra India e Pakistan, un inviato del Washington Post rintraccia e intervista il mitico Sultan Khan: umile servo di un maharaja, divenuto campione britannico, che con grazia e pacatezza riesce a umiliare gli altezzosi avversari inglesi, opponendo l’orgoglio del talento naturale alla supponenza colonialistica degli oppressori.
Iniziato al chaturanga, l’antenato orientale del gioco degli scacchi (“Il mio maestro cominciò a spiegarmi anche le regole occidentali… come l’arrocco…”) che nasce da un’intuizione antimilitarista (“Gli balenò nella mente l’idea che ci fosse la possibilità di deporre le armi e di inventare un gioco in grado di sostituire in modo incruento la guerra”), Sultan snocciola la sua vita avventurosa in India, in Gran Bretagna e poi, dopo il conflitto mondiale (“Operazione Ikarus, operazione Kathleen, operazione Barbarossa…”) a New York, ove entra nelle grazie di un’anziana miliardaria che gli lascia in eredità una Rolls Royce.
Avventura e simbologia del gioco degli scacchi si fondono in un romanzo avvincente e ben costruito sullo sfondo della filosofia orientale (“Ipnotismo, trasmissione del pensiero, telecinesi, preveggenza – tutte facoltà comuni presso santoni e yogin…”) che vede nel karma e nella rassegnazione una chiave d’interpretazione biografica predominante sul talento naturale.
Giudizio finale: strategico, induista, avventuroso.
Bruno Elpis