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Il dio Kurt
 
Il dio Kurt 2019-04-16 15:33:40 Mian88
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    16 Aprile, 2019
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Una tragedia in due atti con prologo

«Finché ci sarà la famiglia ci sarà la morale, e finché ci sarà la morale l’umanità non potrà mai dirsi veramente libera. […] No, l’incesto lo commettiamo noi oggi, quando lo commettiamo, perché c’è lì, pronta, la morale, a dirci che lo commettiamo. Ma una volta abolita la famiglia sarà abolita la morale e una volta abolita la morale saranno aboliti anche l’incesto e la repressione dell’incesto e la tentazione dell’incesto. Non vi saranno più che uomini e donne liberi dentro un’umanità libera.»

Sono parole forti quelle con cui Alberto Moravia ci presenta Kurt, il comandante Kurt, il Dio protagonista di questa tragedia in un prologo e due atti. È il 1944, siamo nel Teatro del campo di concentramento (sperduto tra i boschi in Polonia) allestito in una baracca. Il luogo è scarno, pareti e soffitto sono fatti di assi, bandiere naziste, rosse e con la croce uncinata, costituiscono la prevalente decorazione. Da un lato abbiamo la platea, dall’altro il palco. Mentre la platea è composta da ufficiali e soldati delle SS più i deportati, sul palcoscenico, almeno, inizialmente non vi è alcuno. Lo spettatore ha la percezione di trovarsi in Grecia, una Grecia antica con una piazza, qualche abitazione, con un tempio. È questione di attimi quando, il deserto di quella rappresentazione è riempito da Kurt, maggiore delle SS, di anni trentacinque, di fattura piccola e magra, dalla fronte calva e gli occhi infossati, il naso profilato, la bocca sottile e la fisionomia da intellettuale. Non indossa il berretto quanto una parrucca. Sulla divisa veste un lenzuolo strappato drappeggiato a toga. Si offre agli spettatori con poche ma inequivocabili parole: sta per avere luogo un esperimento culturale, un esperimento che a prescindere dall’epurazione ha ad oggetto quello di gettar via la morale. Un esperimento, ancora, che avrà luogo mediante la messa in scena nella Germania nazista dell’Edipo Re di Sofocle. Perché l’Edipo Re? Perché la rappresentazione deve avere un carattere educativo, e per educare non basta esporre una teoria, bisogna anche fornire degli esempi. Tra un parricidio, un incesto, un suicidio, un’autolesione, il sangue. Il sangue di una sola famiglia. E mentre il Dio Kurt rappresenta il Fato, dapprima greco, di poi, tedesco, primi attori saranno proprio loro: i prigionieri, i deportati. Questi saranno chiamati ad interpretare dal vivo la tragedia, saranno chiamati a viverla sulla propria pelle e a coglierne le più nefaste conseguenze, sino a decidere. Decidere di quel fato, di quale abbracciare e di quale rifiutare. Vivendo, infine, con le loro colpe che mai gli verranno risparmiate o agevolate con la morte.
È un dramma nel dramma quello descritto e creato da Alberto Moravia in quel lontano 1966. Alla base della sua opera vi è quella di reinterpretare il teatro che per lui è composto dalla parola tanto che la piece deve avvenire nelle parole e non al di fuori di queste.
Dal punto di vista metrico il testo è costruito mediante lo schema di una scatola cinese essendo suddiviso in due atti di tempo diseguale e preceduti da un prologo. E mentre nel primo atto assistiamo alla descrizione del progetto teatrale, della trasposizione dell’Edipo Re, nel secondo si inserisce il dramma personale dei due protagonisti, Kurt e Saul. È la loro interpretazione a soverchiare la commedia classica intingendola dei connotati del teatro moderno.
L’idea di Kurt è quella di dimostrare che il fato greco non è più corrispondente all’idea di fato moderno così come introdotto dalla Germania del Terzo Reich. E mentre il carnefice ha un atteggiamo di distacco totale per il ruolo rivestito tanto da non percepirne l’orrore, per le vittime è necessario reagire alla colpa ancestrale (incesto e parricidio) mediante il rifiuto del suicidio (Giocasta) e uccidendo (Edipo) l’ideatore degli eventi, ossia il fato, il fato greco. Una circostanza questa che porta quest’ultimo, interpretato dal nazista Kurt, a rivendicare il successo dell’esperimento culturale.
L’antica morale trasforma il senso di colpa in indifferenza al male e in reazione violenta punitiva e non più autopunitiva. Torna, quindi, ad essere vero protagonista di questo breve ma affatto semplice componimento, uno dei temi più cari all’autore: la crudeltà. L’eroe finisce con il disumanizzarsi e col compiere gesti dettati dall’istinto e dalla sopravvivenza, anche vendicativi, piuttosto che compiere un gesto definitivo di auto-espiazione. Ma qual è la vera morale? Esiste la tragedia in assoluto? Oppure questo progressivismo ci riporta all’idea pirandelliana di una impossibilità di trasposizione del dramma in un senso diverso da quello relativo?
Infine, ancora, la tragedia antica con la sua catarsi e i grandi temi dell’esistenza dell’uomo contro quella moderna dove la parola, il dibattito, il dilemma del singolo, la storia personale prevalgono sul tutto.
Questo e molto altro è “Il Dio Kurt” di Alberto Moravia, uno scritto quasi introvabile ma di grande intensità e riflessione che nuovamente conferma la maestria e la bravura di uno dei fautori della letteratura italiana classico-contemporanea.

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