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Uomini e no
 
Uomini e no 2018-10-01 06:21:00 kafka62
Voto medio 
 
4.3
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
4.0
kafka62 Opinione inserita da kafka62    01 Ottobre, 2018
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ESSERE E NON ESSERE

“Io a volte non so, quando quest’uomo è solo – chiuso al buio in una stanza, steso su un letto, uomo al mondo lui solo – io quasi non so s’io non sono, invece del suo scrittore, lui stesso.
Ma, s’io scrivo di lui, non è per lui stesso; è per qualcosa che ho capito e debbo far conoscere: e io l’ho capita; io l’ho; e io, non lui, la dico."

“Uomini e no” è stato scritto nel 1945, molto vicino quindi agli avvenimenti raccontati. Eppure, rispetto ad altri libri sulla resistenza, esso presenta un taglio molto particolare. La lotta armata dei partigiani, i rastrellamenti dei fascisti, le rappresaglie dei tedeschi, sono infatti sì narrate realisticamente, nei minimi dettagli, ma anche con una sorta di straniamento, di distanziazione emotiva. Vittorini non intende scrivere una sorta de “Il partigiano Enne 2”, bensì privilegiare da una parte la riflessione politico-morale, dall’altra la dimensione introspettiva e intimista. Per quanto riguarda la prima, lo scrittore è manicheo fin dal titolo: scegliere la resistenza o il fascismo, i partigiani o gli “uomini con la testa di morto sul berretto” può forse essere casuale (come nel film “Cognome e nome: Lacombe Lucien” di Louis Malle), dipendere da pigrizia, opportunismo, ignavia e non da una decisione meditata, ma non è mai eticamente indifferente. Se anche i ragazzi della milizia sono potenzialmente delle brave persone che trovano inconcepibile ammazzare a sangue freddo uno di loro che sta dall’altra parte, la loro scelta di sbadigliare e di voltarsi dall’altra parte per non vedere le nefandezze del regime e gli orrori dell’occupazione li condanna senza possibilità di appello. Per Vittorini non vi possono essere compromessi e ambiguità: i partigiani sono uomini (semplici e pacifici anche quando uccidono, capaci di morire per la libertà altrui), i fascisti no. Bisogna avere l’onestà morale di tracciare una netta linea di demarcazione tra bene e male, tra giusto e ingiusto, perché ogni uomo (ad esempio, l’operaio che nell’ultimo capitolo si unisce alla resistenza) ha avuto la possibilità, anche se non sempre facile, di scegliere da che parte stare: o di qua o di là. In alcune bellissime pagine, Vittorini si interroga se tutto quello che opprime l’uomo e ne offende la dignità è in qualche modo nell’uomo, dentro all’uomo o fuori di lui, se può essere confinato nel “comodo” territorio della pazzia o della bestialità oppure no, e la sua risposta è che tutti noi siamo potenzialmente mostri od eroi, e solo la nostra capacità, magari innata, magari istintiva e pre-logica, di discernimento morale (Enne 2 sa che deve rimanere nella casa e “perdersi”, ma solo l’operaio gli fa capire in un secondo momento il perché) ci fa essere uomini giusti o uomini sbagliati, patrioti od oppressori.
La terza dimensione del romanzo, dopo quella per così dire realistica e quella politica, è anche la più sorprendente e innovativa. Enne 2 è un po’ come certi eroi dei film di Melville che fanno rapine, uccidono, vivono avventure fuori del comune, ma poi, una volta a casa propria, tornano a essere uomini che soffrono per la solitudine o per la mancanza di una donna. In questo senso, Enne 2 è, in un’epoca storica in cui si sopravvive a stento e si lotta quasi senza speranza, solo per resistere, un anacronistico epigono del romanticismo (o addirittura un esistenzialista ante litteram), che si tormenta perché non può avere vicino a sé la donna che ama e da cui è riamato, e che in questa impari sfida ingaggiata col destino, ossessionato dai compagni che si sono perduti e che lui non è stato in grado di salvare, alla ricerca di una semplicità che egli vede negli altri ma che fatica a trovare in se stesso, finisce per abbandonarsi alla seduzione dell’annullamento e del sacrificio supremo. In queste accensioni simboliche e psicanalitiche, in cui Milano viene descritta come un deserto, materializzazione inquietante dell’anima del protagonista, e persino il nemico per eccellenza, Cane Nero, sembra una figura mentale e teorica, lo scrittore si astrae dal suo ruolo e diventa egli stesso un personaggio (lo “spettro”), svelando la natura fittizia della sua creatura nel medesimo momento in cui si rivela come “io”. C’è peraltro una sorta di simbiosi, di identificazione tra autore e Enne 2, che si evidenzia soprattutto nei viaggi a ritroso nell’infanzia del protagonista, in cui si può intuire quasi un mesto “amarcord” autobiografico. Il massimo dell’astrazione si coniuga perciò con il massimo della realtà, sia pure deformata in chiave lirico-poetica, ed in questa ossimorica contrapposizione risiede lo strano fascino del romanzo.
Non si può comunque dire che Enne 2 sia l’unico protagonista di “Uomini e no”. Altri personaggi si ritagliano un loro spazio importante, da Gracco, che “sempre conversava con chi incontrava,…, come tra un uomo e un uomo si fa, o come un uomo fa da solo, di cose che sappiamo e a cui pur cerchiamo una risposta nuova, una risposta strana, una svolta di parole che cambi il corso, in un modo o in un altro, della nostra consapevolezza”; a Figlio-di-Dio, che instaura un muto e surreale dialogo col cane dell’aguzzino tedesco per convincerlo a recedere dal ruolo cui è stato incolpevolmente destinato, ma che alla fine è costretto a sopprimerlo; a El Paso il quale, spacciatosi per diplomatico spagnolo, partecipa alle orge dei nazisti, costringendoli beffardamente a brindare in onore dei partigiani uccisi; a Orazio e Metastasio, inseparabili compagni di lotta, di vita e di lavoro. Le loro parole (così come le loro azioni) sono tutte di una estrema semplicità, i loro dialoghi scorrono lineari e scabri. Così è anche lo stile del romanzo, privo di ridondanze e di preziosismi linguistici e pieno invece di conversazioni in cui le risposte replicano tautologicamente le domande, quasi l’autore volesse sfrondare i concetti di ogni possibile fraintendimento verbale, presentarli nella loro nuda, sobria essenzialità e mettere alfine in evidenza quello che è il suo messaggio più autentico: la necessità cioè di non far cadere nel vuoto l’esempio dei caduti per la libertà (non una libertà generica, ma la libertà di ogni essere umano) e il conseguente obbligo per i sopravvissuti di imparare, di capire, di acquisire una nuova e rigenerata consapevolezza per far sì che le pagine nere della storia non si ripetano mai più.

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"Il partigiano Johnny" di Beppe Fenoglio
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Commenti

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Anch'io l'ho trovato molto bello. I vari momenti la scrittura diventa quasi testo teatrale.
In risposta ad un precedente commento
kafka62
03 Ottobre, 2018
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Ottima considerazione, grazie Emilio.
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