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Hieronymus Bosch
«Imparai Giovanni», mi diceva «che l’eccesso di luce inganna la vista e impedisce di riconoscere la realtà»
1550. Giovanni Ciocchi è stato eletto Papa e nella sua nuova veste ha assunto il nome di Giulio III. È ormai un uomo più che adulto, un uomo che non può dimenticare quel che è stato. Sa che è tempo di narrare, di raccontare quei fatti che furono e che ancora sono vividi nella sua mente.
Contava appena quindici lustri quando, insieme al suo Magister, l’inquisitore francescano Martino da Barga, mentore dell’adolescente nonché maestro di vita a cui è stato affidato dal padre, si mette in viaggio per Venezia. La ragione della loro convocazione presso la Serenissima risiede nel fatto che sono stati chiamati a partecipare al processo inquisitorio contro un valente pittore, e più precisamente contro il pittore fiammingo Jeroen Anthoniszonn van Aken, meglio conosciuto come Hieronymus Bosch, o ancora, per noi italiani, Bosco di Bolducin, invitato a corte niente meno che dalla nobile famiglia Grimani di, appunto, Venezia appena un anno prima dei fatti di cui all’imputazione. Accusato di eresia e blasfemia per aver dipinto un Cristo in croce con fattezze femminili, l’artista si distingue sin da subito per la sua particolare visione del mondo e non sarà semplice per il Magister riuscire a tutare i suoi interessi soprattutto perché proprio mentre in capo a questo pende una gravissima ipotesi di colpevolezza, iniziano a manifestarsi macabri omicidi: ogni vittima che viene rinvenuta priva di vita presenta un segnale da decifrare, un segnale apparentemente privo di senso (come il deposito di cibo vicino al corpo o ancora la presenza di monete e piumaggio vario sul medesimo) ma che in realtà è parte di un quadro più grande. Il Magister, noto oltretutto investigatore, non può sottrarsi al compito di scoprire chi si cela dietro questi crimini efferati, in parte per un senso di giustizia, in parte perché i principali sospetti di colpevolezza ricadono proprio su Hieronymus, di cui ha assunto la difesa. Il suo, tra l’altro, è un ruolo ancora più delicato se si pensa che è stato nominato sì avvocato della difesa – o se preferiamo del diavolo visto che tutti gli inquisiti sono considerati ipso facto emissari del demonio – e quindi del pittore all’interno del tribunale dell’Inquisizione, quanto anche difensore del suo committente stesso e dunque una della famiglie più potenti del tempo. Martino, tra l’altro, non può permettersi di inimicarsi né l’inquisitore, né il Papa, né la Repubblica di Venezia, ma nemmeno i Grimani. Senza contare, ancora, che l’accusato è protetto da Filippo il Bello. Riusciranno Maestro e allievo a far chiarezza sul mistero?
Quello costruito da Carlo A. Martigli è un perfetto thriller con una base storica e artistica solida a cui si aggiunge un linguaggio pregiato, minuto, erudito, attento e preciso. Attraverso la figura del pittore olandese e grazie allo scandalo artistico che ne ha da sempre accompagnato la fama, l’autore riesce a dar vita a un giallo storico che affascina, conquista e colpisce in ogni sua minuzia e colpo di scena.
La trama è inoltre compatta e ben incasellata, i personaggi sono concreti, palpabili e non compiono mai gesta eccessive, si basano sempre sulla logica e l’intelletto e mediante questi elementi giungono a conclusioni e intuizioni di vario genere. Ciò li rende veritieri e affascinanti per il conoscitore che si approssima agli avvenimenti tanto che la lettura scorre rapida e senza difficoltà. Ogni tassello riesce a ricondurre a quello che è il passo successivo fino alla discoperta di quello che è il disegno finale.
Un giallo storico che si distingue per trama, ricostruzione e stile narrativo. Pregiato, raffinato, intrigante.
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Veramente degno di nota, è lo stile.
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