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Una vera e propria tigre
Figlia naturale del depravato Galeazzo Maria Sforza, duca di Milano, e di Lucrezia Landriani, moglie di un uomo di corte, Caterina Sforza (Milano, 1463 – Firenze, 28 maggio 1509) si fece notare fin da giovane per il suo carattere ribelle e per la sua passione per le armi (quest’ultima verrà poi trasmessa al figlio Ludovico di Giovanni de’ Medici, più conosciuto con il nome di Giovanni dalle Bande Nere). Divenne signora di Imola e contessa di Forlì, dapprima con il marito Girolamo Riario, nipote di Papa Sisto IV, e, dopo l’uccisione di questi in una congiura cittadina, in qualità di reggente del figlio primogenito Ottaviano. Fu proprio nella veste di reggente che di distinse in modo particolare, comandando a tutti gli effetti e dimostrando una fermezza eccezionale. Dopo un secondo matrimonio con il giovane Giacomo Feo, che finì pure lui vittima di una congiura, Caterina sposò l’ambasciatore della Repubblica di Firenze Giovanni de’ Medici, detto il Popolano, membro di una ramo collaterale della nota famiglia fiorentina. Anche il terzo marito, tuttavia, morì, questa volta però per malattia. Divenuta così nuovamente vedova si trovò al centro delle azioni volute da Alessandro VI, il famoso Borgia, per la conquista dell’Italia; in particolare dovette fronteggiare l’alleato esercito francese calato in Italia e che già aveva sottomesso Milano, poi ripresa dagli Sforza grazie agli Austriaci. Lo scontro vero e proprio però avvenne con il figlio del Papa, il Valentino, che, posta sotto assedio e infine occupata Imola, rivolse la sua attenzione a Forlì, dove Caterina, asserragliata nella fortezza di Ravaldino, tenne a lungo testa agli aggressori, fino alla capitolazione e la prigionia a Roma fino al 30 giugno 1501, quando, liberata dai francesi di passaggio per la conquista del Regno di Napoli, si ritirò a Firenze nelle proprietà del marito Giovanni e lì si spense il 28 maggio 1509. Personaggio indubbiamente interessante, battagliero, in un’epoca densa di avvenimenti come quella del pontificato di Alessandro VI, assunse al ruolo di eroina non solo agli occhi del popolo che le diede il soprannome di Tygre, ma anche di suoi illustri contemporanei, fra i quali il Machiavelli. E proprio Caterina Sforza è la protagonista del bel romanzo storico La bastarda degli Sforza, scritto con felice estro da Carla Maria Russo. La narratrice, che si è avvalsa di ampie e meticolose ricerche storiche, è stata brava nel riproporci un mondo in cui l’essere donna significava normalmente essere schiava dell’uomo, e non importava che si trattasse di una popolana e di una nobile. In particolare il libro riesce a trasmettere l’immagine di un personaggio che, dietro la finezza dei lineamenti e la dolcezza dello sguardo come appare nel suo presunto ritratto “La dama dei gelsomini” di Lorenzo di Credi, cela un carattere indomito, forte e deciso ad affermarsi, un’autentica Signora a tutti gli effetti di uno Stato, anche se piccolo, come infatti ebbe a dimostrare. Ho l’obbligo però di muovere un appunto, perché la narrazione si interrompe improvvisamente quando Caterina riesce a riparare nella fortezza di Ravaldino, lasciando i figli e i familiari alla mercé del Valentino. E’ vero che in una breve nota Carla Maria Russo si impegna solennemente a scrivere il seguito della storia, ma ho avuto netta l’impressione di una porta che mi fosse stata sbattuta in faccia. Posso comprendere le esigenze dell’editore, ma resta il fatto che questo comportamento è censurabile e che influisce non poco sul giudizio complessivo dell’opera.
Da leggere, comunque.
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Dopo la caduta di Forlì, Caterina finisce un poco nell'oblio. Addirittura, dopo una dolorosa prigionia a Roma, alla morte del Valentino trascorrerà gli ultimi anni della sua vita a Firenze in modo quasi monastico, molto differentemente dagli anni "battaglieri".
Quindi, forse, ha ritenuto che una "caduta di tono" della narrazione non avrebbe giovato.
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