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La storia del voto alle donne
Dieci donne a chiedere, a resistere, a credere nel diritto di contare e di esistere socialmente, convinte che “…non ti guadagni soltanto il pane, con l’istruzione. Ti guadagni la possibilità di vivere a occhi aperti” (p.92). E, allora, ecco le maestrine, - diminutivo che sottende pregiudizi e svalutazioni - missionarie dell’alfabeto, girovaghe in tutta Italia, a rappresentare la disciplina, il nerbo della scuola.
Maria Rosa Cutrufelli, da molti anni e con diverse pubblicazioni, si interessa, studia e riporta, come in questo suo ultimo romanzo, alcune vicende fondamentali sulla strada della coscienza e della liberazione delle donne. Stavolta, ci accompagna a Montemarciano, nei primi del Novecento, nel periodo politico in cui accadeva lo scandalo dei popolari, in cui i cattolici stringevano l’accordo, considerato contro natura, con i repubblicani e i socialisti.
Un gruppo di maestre accoglie l’appello lanciato da Montessori e, di conseguenza, in paese diviene insopportabile la febbre del voto, la febbre delle donne giudicate malate di suffragismo. L’articolo 54 della legge elettorale lo recitava chiaramente: “…il voto è interdetto alle donne, agli analfabeti, nonché ai pazzi, ai detenuti in espiazione di pena e agli imprenditori che hanno subito una procedura di fallimento…”
Come ricorda il romanzo, Lodovico Mortara, nuovo presidente della corte d’appello di Ancona non ostacola e, anzi, offre alle donne la possibilità di scegliere e la libertà di raccontarla, la scelta, di argomentarla. Così diviene il giudice delle donne, unico essere umano a rappresentare la possibilità di una cultura del cambiamento e dell’apertura che ancora oggi stenta a manifestarsi.
È interessante, attraverso il lavoro della scrittrice, seguire lo sviluppo delle vicende di Alessandra, di Teresa, di Luigia, sentire la fatica, le idee, l’autorità, senza odio, per amore di sé e delle altre, in situazioni diverse in cui fa comodo a uomini spaventati che la donna rimanga timida e goffa, giacché “oggi pretende il voto, domani chissà” (p.72).
In una società confusa e in continua trasformazione, è certo, solamente, che le donne devono tacere, lavorare in casa, supportare, semmai, il marito, i figli, gli anziani, a garanzia della stabilità familiare. L’indipendenza lavorativa, economica e, prima ancora, psicologica, delle donne è vissuta come una minaccia per l’ordine sociale. La cultura prevede con certezza che il loro mestiere è sposarsi per accudire marito e figli. “Udivo di nuovo la voce furiosa di mio padre che sbraitava: .” (p.9)
Ancora, negli anni ’80, io ascoltai questi discorsi, certo più sottintesi e meno imperativi, a coronare la mia laurea, come fosse un finale, come il limite massimo, come la moneta di scambio per poter fare da moglie ad un professionista! Il lavoro delle donne ha sempre umiliato gli uomini perché ritenuti incapaci di provvedere al loro mantenimento economico ma, in realtà, preoccupati di mancare il controllo. Ancora oggi sento voci di persone imbrigliate/i nel vecchio modello: fra loro c’è sempre una Vittima e un Persecutore, chi sceglie e chi si sottomette, chi vince e chi perde, chi è infelice e chi comanda, chi festeggia sguaiatamente e chi studia e riflette.
Tale professor Benanni, amministratore pubblico, urla convinto “con la pappagorgia tremante d’emozione: Le donne sono schiave della natura, non possiedono quel superiore spirito maschile che da sempre è, e deve essere, il cardine dello Stato.” (p.71) E anche don Peppo dal pulpito, definitivamente maledice: le donne oneste non si sporcano con la politica. Perciò le donne raccontate nel romanzo devono essere caute, proteggersi e farsi da parte.
Cutrufelli nel poscritto ricorda come “gli scrittori…sono come gazze ladre che rubano tutto ciò che luccica…E la realtà, i fatti, le cose realmente accadute, sono molto luccicanti” (p.250). Ed io ricordo a lei come le scrittrici sono gazze ladre, di più!
“A volte penso che Luigia sia un po' come quei pesci che mettono nei pozzi o nelle vasche per spurgare l’acqua. Ecco: lei ripulisce l’acqua perché tutte, in futuro, possano nuotarci dentro.” (p.70)
Abbiamo bisogno di libri come questo e di donne che possano continuare a ripulire, con tenacia, con sapienza, rimanendo severe, gioiose e pazienti.
“Ma ci sono parole che umiliano, che vogliono umiliare al solo scopo di toglierti coraggio. Forse, ancora una volta, aveva ragione lei: c’è un momento in cui bisogna lasciare il tavolo da gioco, per poterlo rovesciare in seguito.” (p.244-245)
“Non esporti, per carità! Dammi retta: una donna che lavora, tanto più se maestra, è sempre sotto esame.” (p.24)