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Un grandioso affresco
Scrivere un romanzo storico riguardante l’ultimo travagliato periodo del regno borbonico, mostrando attraverso le vicende di una famiglia, i Nigro, le lotte aspre e sanguinose volte al riscatto dei cafoni, in un contesto di profonda miseria per la stragrande maggioranza della popolazione del Regno di Napoli e delle Due Sicilie, non deve essere stato facile, perché si apprezzano la minuziosa ricerca delle fonti e le descrizioni dei personaggi, pressoché tutti realmente esistiti. Grosso modo il periodo in questione va dall’imminenza della rivoluzione francese alla spedizione dei Mille, un lasso di tempo non breve, caratterizzato da turbolenze, da confusi moti popolari in cui era difficile distinguere i rivoltosi dai briganti e dove sovente le parti finivano per invertirsi, generando un caos in cui era difficile comprendere i ruoli dei protagonisti. Furono le idee liberali che accesero la miccia e che fecero pressioni affinché il Borbone concedesse almeno una costituzione e brigasse per non far morir di fame i suoi sudditi, ponendo fine a contrasti, a epidemie, a un banditismo che nasceva e si sviluppava in un tessuto di particolare miseria, in cui era più facile morire che vivere. Non si trattava quindi del Regno ricco tanto osannato dai neo borbonici, era un regime assolutista che assai probabilmente, anche senza la spedizione di Garibaldi e il soccorso dei piemontesi, avrebbe finito per dissolversi.
Raffaele Nigro narra le vicende dei suoi avi, le racconta come fosse una saga nordica, in cui tuttavia la predominante epica viene smussata da un verismo simile, anche se non uguale, a quello di Giovanni Verga. Ne nasce un’opera che affascina e stupisce, un grande affresco di un Meridione che ancor oggi è in attesa del suo riscatto, un romanzo corale con tanti protagonisti, ognuno ben inserito nel contesto, e di questi vorrei ricordarne qualcuno, perché si tratta di individui dotati di forte personalità, che si affacciano prepotenti sulla scena e che se ne vanno, mestamente, in punta di piedi.
Francesco Nigro, un povero bracciante analfabeta, ma con un naturale talento per la poesia, costretto dalle circostanze a diventare brigante, abbraccia la causa della povera gente, dei contadini, diventando generale e morendo per sostenere quell’idea di riscatto che accompagna la ribellione dei cafoni; Concetta Libera Palombo, moglie di Francesco, donna devota e fedele alle tradizioni, sarà un giunco nella tempesta, con i figli che le daranno non pochi grattacapi, tranne uno, Raffaele Arcangelo Nigro che, avviato alla vita monacale, combatterà una sua personale guerra, del tutto pacifica, per soccorrere i miseri e i deboli, forte delle sue convinzioni e toccato dalla grazia divina, da cui tuttavia riuscirà a non essere schiacciato, a non vivere dell’aureola di santo che tanti gli vogliono porre sul capo; Padre Ferdinando Paolino Tortorelli, un sacerdote che non si chiude nelle mura della chiesa, ma che è sempre in giro, a proprio agio fra i contadini, uomo saggio e studioso, uno scienziato con la tonaca; Don Tommaso Maria Bindi, un liberale, un avvocato, che sostiene la causa dei contadini, pagandone le conseguenze, un puro e disinteressato, pacifico e tuttavia coinvolto in una guerra di cui non riuscirà a vedere la fine. Ambientato tra Puglia e Lucania, in terre per lo più aride, ma in cui sono presenti due fiumi ricorrenti nella narrazione, il Basento e l’Ofanto, è un romanzo in cui cruda realtà e utopia, speranze spezzate, solitudini e rassegnazioni si alternano in una narrazione che avvince, che rende partecipi delle tragedie e delle poche effimere gioie, un quadro che la mano dell’autore ha saputo dipingere con rara abilità, tanto che, giunti alla fine, è impossibile non essere travolti dalla commozione.