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Due eroi piccoli piccoli
In occasione del centenario della ritirata di Caporetto si avvertiva la necessità che qualcuno si prendesse la briga di scrivere un romanzo su questo tragico evento ed era da troppo tempo che durava l’attesa, quasi esistesse un timore reverenziale di ideare una trama che facesse ben comprendere, oltre a quello che fu la realtà storica così ben tracciata in Caporetto di Alessandro Barbero, come accadde e anche perché avvenne. Non nascondo che le difficoltà di realizzare un’opera simile sono notevoli, un po’ per la naturale ritrosia nell’ammettere una nostra sconfitta, un po’ per il rischio di scrivere, anziché un romanzo corale, la massificazione di un evento disperso in tanti rivoli, tali da non consentire al lettore di farsi almeno un’idea. Bravo è stato Malaguti, anche grazie a un’impostazione che vede in alternanza capitoli ambientati in quei tragici giorni di fine 1917 e altri spostati nel tempo di non pochi anni, addirittura nel 1931, in cui si dipanano le indagini sulla misteriosa morte (incidente o omicidio) di un generale della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, rinvenuto cadavere lungo i binari della linea ferroviaria Firenze – Bologna. L’autentico colpo di genio è però di aver trovato, per ognuno di questi capitoli, un personaggio, un protagonista, il Vecio che è un militare ormai rotto alla guerra e l’ispettore di polizia Ottaviano Malossi, a cui è stato affidato il caso, una patata bollente che può sancire il suo avanzamento di carriera, come può anche travolgerlo. Si tratta di personaggi indovinati, assai ben descritti, con una analisi psicologica fine e approfondita, due individui che si riveleranno, pagina dopo pagina, dei piccoli eroi, gente che compie atti di grande significato in totale silenzio, senza enfasi e che soprattutto non avrà medaglie. Nei capitoli relativi alla ritirata, ognuno dei quali è dedicato a una vittima della repressione poliziesca che ha rappresentato una delle caratteristiche della Grande Guerra, la figura del Vecio, nel suo silenzio, esprime tutta la sofferenza di chi è rassegnato a morire ogni giorno; ci sono pagine che riescono a trasmettere al lettore, palpabilmente, lo sfacelo di quelle giornate di fine ottobre e inizi novembre, le nefandezze di cui l’uomo può essere capace quando tutto si disgrega, la carne da cannone che si ribella per ridiventare subito di nuovo bestia destinata al macello. Nelle parti invece spostate nel tempo si riesce a percepire tangibilmente l’atmosfera oppressiva di una dittatura, capace di distruggere i suoi strumenti, uno dei quali è appunto l’ispettore, per fini oscuri e comunque non nell’interesse del popolo. Sembra quasi un destino, e infatti lo è, che questi due personaggi vengano a incontrarsi, a trasmettersi i reciproci dolori, lo sdegno per aver compreso che la loro vita è quella di pedine manovrate da altri. Sono pagine stupende, che mi hanno commosso profondamente, e che concludono nel migliore dei modi un romanzo che non ha nulla da invidiare a due capolavori della letteratura sulla prima guerra mondiale: Niente di nuovo sul fronte occidentale e Un anno sull’altipiano.
Non credo sia necessario che aggiunga altro, se non la raccomandazione a leggerlo, per comprendere che in guerra ci sono anche eroi della pace.