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Storie di miniera
L'autore ci conduce con la maestria del grande narratore nel profondo delle viscere della terra, all’interno di un mondo buio e pieno d’insidie dove guadagnarsi il pane significa rischiare la vita ogni giorno. È infatti una storia di ambientazione mineraria quella che inizia a scorrere mentre si segue il giovane protagonista, Luisu Melas, le cui vicende finiscono per perdersi inevitabilmente tra quelle tumultuose della Storia con la esse maiuscola.
Era il tempo del “Taci, il nemico ti ascolta” e del carbone autarchico del Sulcis. La grande miniera di Serbariu raccoglieva braccia da ogni parte d’Italia sullo sfondo di Carbonia, città nuova e moderna che il regime fascista aveva fatto sorgere dal nulla solo pochi anni prima.
Luisu, vent’anni scanditi unicamente dai ritmi della vita contadina del paese immaginario di Fraus, vi giunge in groppa al puledro Baieddu quasi al termine del 1942, in pieno conflitto mondiale; per conto del padrone deve consegnare il cavallo, destinato a diventare bestia da traino nelle gallerie sotterranee, ma anche lui, trattenuto laggiù in qualità di “abile arruolato minatore” per assolvere il dovere della leva militare, è costretto a conoscere la traumatica discesa nel Pozzo Uno, tutto un altro mondo a ben centosettantasei metri sottoterra.
Luisu non ci metterrà molto a vedere con i suoi occhi campagnoli la miniera come un campo di battaglia, con tanto di morti e feriti da essere non meno pericolosa della guerra stessa.
Anche quella nuova realtà ha il suo cielo, anzi due: cielo doppio che alterna i suoi volti di buio e luce nell’eterno scendere e risalire dal pozzo; quello infido è il “cielo di sotto nero e basso, […] cielo che può cadere”, spazio angusto per corpo e mente dove il grisù, ancor più traditore, tende i suoi agguati di fuoco. Intorno a Luisu, che di sopra e di sotto percorre il suo personale percorso di crescita, si muovono altri personaggi, tra i quali il toscano anarchico, nonché confinato politico, Ferriero Dondi, il minatore-penitente tziu Macis e la figlia di quest’ultimo, Marialuisa, ragazza decisa dal bel nome d’erba.
Il libro di Angioni sa tenere viva l’attenzione del lettore dalle prime alle ultime pagine e solo allora, alle concitate battute conclusive, si comprenderà con amarezza che la fine del romanzo era già racchiusa nel suo inizio.
Una storia semplice e preziosa. Una lettura che ha il merito di farci voltare indietro ancora una volta per riscoprire, grazie all’intreccio inscindibile e ben dosato di finzione e realtà, un passato che ci appartiene e neppure tanto lontano.
Il professor Giulio Angioni se n’è andato, a causa di un male incurabile, lo scorso mese di gennaio. Faceva parte a pieno titolo di quel gruppo di scrittori sardi contemporanei il cui successo editoriale ha oltrepassato i confini isolani; era anzitutto un antropologo e i suoi studi accademici sono conosciuti anche nelle università europee. Per chi, come la sottoscritta, ha amato i suoi libri è stata una grave perdita, pensando a quante altre bellissime storie come questa di "Doppio cielo" avrebbe ancora potuto scrivere.
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Elena