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Nella storia, oltre la storia
Nel film “Nostra Signora dei Turchi” Carmelo Bene immagina, sulla base di una leggenda, che uno dei teschi conservati nella cattedrale di Otranto e appartenuti ai martiri del 1480, si rivesta di carne e recuperi prodigiosamente i suoi occhi. La scena potrebbe suggerire che in quei resti sussistano vita e anima per guardare alle cose del mondo e che l’energia sprigionata dal loro dolore li renda ancora vitali: il condizionale è d’obbligo perché, a voler seguire le intenzioni dell’autore, tentare di dare un significato alla sua narrazione sarebbe non solo inutile, ma sbagliato. Più appropriato, allora, attingere ai Sepolcri e alla suggestione ispirata dal brano in cui Foscolo immagina che a coloro che costeggiavano l’Eubea apparissero ancora le scene della battaglia di Maratona, il balenare degli elmi, le spade cozzanti delle “larve guerriere”, quasi che il gesto eroico travalicasse il tempo e l’ardore del combattimento vincesse l’inerzia della materia e il nulla della morte.
Così, nel romanzo della Corti, i protagonisti di quella tragica vicenda sembrano riprendere vita, già nell’introduzione, laddove l’autrice, osservando i pescatori sul molo, immagina che abbiano solo dato il cambio, a metà del viaggio, ai protagonisti di ieri, e che, in questo passaggio di testimone, essi continuino ad esistere attraverso i loro epigoni: “Ma mettiamo di soggiornare a lungo nella vecchia Terra d’Otranto, di scendere al crepuscolo verso il molo del porto […] E’ suppergiù come aprire una finestra che dia in un luogo segreto e appartato. Le cose allora cambiano, ogni senso di favola si fa impossibile: sono ancora Loro che abbiamo davanti, gli stessi pescatori, salvo qualche dettaglio, qualche frastuono momentaneo attorno alla loro persona; gli stessi piccoli uomini dalla squisita capacità di comportarsi bene, nell’ora destinata”. E analogamente, nelle ultime parole del romanzo, Aloise De Marco, un ufficiale ritornato ad Otranto al seguito del duca Alfonso nella cittadina riconquistata, voltandosi a guardare il colle della Minerva, dove i martiri vennero sacrificati, si chiede: “Quanti anni sono passati da allora? Solo i vivi contano gli anni. Ed è mutato qualcosa?”. Le vie cittadine, le palle di pietra ancora presenti sulle soglie delle abitazioni, le mura entro le quali scoccò “l’ora di tutti” - l’occasione che la storia offrì e ancora offre di rivelarsi agli altri, ma soprattutto a se stessi nel proprio latente, insospettato valore- la cattedrale che ospita le reliquie, sembrano varcare le soglie del tempo e annullare ogni distanza da quegli eventi lontani.
Il romanzo si iscrive, ovviamente, nel genere storico e i fatti narrati trovano la loro cornice nelle aspirazioni di Maometto II al dominio nel Mediterraneo, nel suo interesse a indebolire il Regno di Napoli che lo contrastava, nel tacito favore che Venezia accordò al sultano, che con la sua politica di espansione colpiva uno stato rivale: calcoli di potere, rivalità piccole e spesso meschine che richiamano alla mente la critica storica di Machiavelli e Guicciardini e che ogni volta, puntualmente, dai palazzi dei potenti si riversavano (si riversano), col loro strascico di orrori, sulle popolazioni inermi. Molti personaggi del romanzo sono storici, da re Ferrante al figlio Alfonso, dal capitano Zurlo all’arcivescovo Pendinelli. I popolani sono frutto di una fantasia filtrata però dalla documentazione. Ma l’intento dell’autrice travalica i confini del genere, per sua stessa ammissione. Così la vicenda di Otranto diventa simbolo di ogni resistenza che si opponga ad una volontà efferata di dominio e alla prepotenza dei conquistatori, e la tragedia del popolo otrantino rispecchia la millenaria storia di sfruttamento, di sudditanza, di ingiustizia e diseguaglianze sociali delle popolazioni meridionali. “Se avevamo denari, restavamo cristiani e restavamo vivi. Non c’è bene per i poveri a questo mondo”, afferma Nachira, uno dei personaggi-narranti destinati al martirio, nel penultimo capitolo. Ma già l’epigrafe, tratta da “Canto General” di Neruda, preannunciava una precisa scelta di campo e richiamava il clima ideologico del secondo dopoguerra: “Voglio morire insieme ai poveri, che non ebbero tempo di studiarla, mentre li bastonavano quelli che hanno un cielo suddiviso e regolato”.
La struttura si articola in cinque voci diverse, che narrano la stessa vicenda, cogliendone momenti solo leggermente sfalsati, a parte l’ultimo, che è quello della riconquista, avvenuta tempo dopo. Si tratta di Colangelo, il pescatore che assurge a simbolo dello spirito di resistenza che emerge in modo semplice e quasi istintivo nei momenti più bui della storia tra le classi popolari; di Idrusa, la cui “bellezza selvaggia” rispecchia una embrionale forma di rivendicazione femminile che la rende diversa agli occhi degli altri e fa ricadere su di lei un giudizio morale negativo che ella ribalterà nel gesto finale con cui strapperà un bambino dalle mani di un soldato turco e ucciderà un “dellì” che tentava di stuprarla; di Nachira, cui viene delegata la narrazione delle ultime fasi, culminate col rifiuto di abiurare alla fede cattolica e col martirio sul colle della Minerva (e qui si vede come sostanzialmente la Corti abbia fatta propria, pur tra qualche riserva, la versione del martirio per fede, che la bibliografia più recente, con Vito Bianchi in prima linea, tende invece a smentire o a ridimensionare). Nel secondo capitolo la narrazione è affidata al capitano Zurlo, il personaggio meglio risolto, il tipico intellettuale meridionale che guarda alle cose del mondo e della storia con il distacco necessario di chi “ha capito il gioco”, ma non si sottrae per questo al compito che gli è stato affidato e vive anche lui, sia pure con una consapevolezza maggiore, “l’ora di tutti”. E’ proprio qui che la narrazione si fa più fluida e avvincente, le soluzioni espressive più convincenti, la dialettica tra i personaggi più serrata e rivelatrice dei diversi caratteri (si veda, in particolare, il contrasto tra il lucido realismo di Zurlo e l’idealismo dissennato ed adolescenziale del figlio Giovannello, o quello generoso ma goffo di Don Felice, uno dei pochi spagnoli a non scappare al manifestarsi della minaccia turca). Ma già il modo quasi casuale in cui l’aristocratico viene investito da Ferrante I d’Aragona del comando di Otranto, in tempi non ancora sospetti, alla fine di una messa in Santa Chiara cui assiste anche il re, l’atmosfera plumbea di quel rito e di quella presenza rivelano una vena robusta e richiamano certe atmosfere della grande letteratura meridionale, De Roberto in primo luogo, dove il dato storico trascolora in senso di decadenza e in presagio di morte: “Fu allora che feci una scoperta: non c’era in tutto il regno una faccia che avesse il potere di spandere intorno a sé tanto gelo quanto la faccia del re, nemmeno quella di un cadavere, la quale avrebbe avuto il vantaggio sulla faccia del re di ricordare la fragilità umana e la debolezza della vita. La faccia del re ricordava qualcosa di simile al fato, con tutto ciò che di agghiacciante comporta tale genere di correlazione”. La narrazione avviene “post mortem”, come nell’Antologia di Spoon River ed è una soluzione naturale, perché nessuno di questi personaggi se ne è veramente andato e dalle bacheche della cattedrale essi ci guardano con i loro occhi e ci dicono che siamo come loro, che siamo Loro. Qualche piccolo anacronismo può sorprendere, trattandosi di una grande filologa, ma non inficia minimamente la ricostruzione storica. Prima ancora di consigliare altri testi, si raccomanda una visita alla cittadina pugliese, con un atteggiamento non da turista in cerca di effimere emozioni- ce lo chiede l’autrice stessa- ma da lettore che vuole sentire, immedesimarsi, ascoltare, capire una vicenda che è ancora la nostra.