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C'era una volta Santa Croce
La fine del mondo che i personaggi del romanzo conoscevano giunge all’improvviso: in parallelo al passaggio dall’età adolescenziale a quella adultà si realizza la rivoluzione urbanistica del loro Quartiere (scritto sempre con la maiuscola) voluta dal regime fascista. Non era un universo facile il loro, contraddistinto sovente dalla miseria e dal lavoro duro pagato troppo poco, eppure percorso da una vicinanza sociale ed emotiva che faceva del quartiere di Santa Croce quasi un paese all’interno della città: quella che oggi chiameremmo, con orribile anglicismo, ‘gentrificazione’ compromette l’anima popolare (costretta a spingersi in periferia) obbligando molti ad abbandonare le proprie case e le proprie vie. La descrizione della vita quotidiana – le botteghe artigiane, le osterie in cui bere un bicchiere di troppo, le chiacchiere serali seduti davanti agli usci – risultano particolarmente vivaci, ma Pratolini non si fa mancare inquadrature più allargate che, magari partendo da una finestra aperta, colgono in un solo colpo d’occhio i tetti del Quartiere. Se questo è, sin dal titolo, il protagonista, altrettanto importanti sono i ragazzi e le ragazze le cui vicende si intrecciano in questi svelti capitoli: i primi amori che scompongono e ricompongono le coppie, le famiglie più o meno difficili, la maturità che arriva troppo presto, il desiderio di adattarsi che si scontra con l’aspirazione al riscatto sociale e politico sono solo alcuni dei temi affrontati nel racconto in prima persona di Valerio, primus inter pares nella cui fisionomia si può intravedere il profilo dello scrittore. Il libro è infatti ambientato negli anni Trenta e il l’autore è perciò solo di pochi anni più vecchio delle figure che va narrando in quella che è una delle sue primissime opere, il che spiega la presenza di passaggi e situazioni un po’ acerbi. Fra queste pagine, ci sono già i germi che germoglieranno in frutti più maturi, dalla capacità di ricostruire in modo vivido la propria città al partecipato studio delle psicologie dei personaggi senza comunque riuscire a evitare qualche scivolata nella banalità o nel melodramma. Se da una parte la figura di Giorgio, socialista proiettato al sol dell’avvenire, ma anche profondo difensore dell’anima del quartiere risulta alla fine monolitica nel suo non presentare angoli bui, la storia che unisce la solitudine esistenziale di Marisa e la rabbia dell’orfano di guerra Carlo perde quota quando si avvicina alla sua tragica conclusione. Sono in ogni caso difetti minori di un lavoro che ha il pregio di immergere il lettore in un momento storico e in un modo di intendere l’esistenza che paiono remoti e invece ci sono lontani solo pochi decenni. Proprio al modo di pensare è però addebitabile, l’unica, macroscopica pecca: la rappresentazione ai limiti dell’omofobia dell’esperienza di vita che Gino compie cercando di uscire dal guscio protettivo, ma al contempo soffocante del Quartiere.